Conferenza stampa Mur (2023) – Festa del cinema di Roma

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Presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, il 19/10/2023 viene presentato anche alla Festa del Cinema di Roma 2023 nella sezione Special Screening. La pellicola documentaristica è prodotta da Domenico Procacci, Laura Paolucci, Kasia Smutniak ed è scritta da Kasia Smutniak Marella Bombini.   È una produzione Fandango in associazione con Luce Cinecittà e una distribuzione Luce Cinecittà.

Di cosa ci parla Mur?

Nel marzo del 2022, l’Europa si è trovata a fronteggiare l’invasione russa dell’Ucraina e, come risposta, molti Paesi si sono mobilitati per offrire asilo ai rifugiati. Tra questi, la Polonia si è distinta per la sua prontezza e generosità, anche se paradossalmente ha cominciato a costruire il muro più costoso d’Europa per impedire l’ingresso ad altri profughi. La storia di questo film si svolge lungo una sottile striscia di terra chiamata “zona rossa”, che corre parallelamente al confine bielorusso e impedisce a chiunque di avvicinarsi alla costruzione del Muro, il fulcro narrativo della storia. “Zona rossa” diventa il palcoscenico di un viaggio incerto e rischioso, dove l’accesso ai media è proibito. Grazie all’aiuto di attivisti locali e a una leggerissima attrezzatura tecnica, la regista Kasia Smutniak si avventura nella zona rossa, filmando ciò che viene nascosto al mondo. Il primo muro, una barriera naturale nel cuore dell’Europa, è la maestosa Puszcza Białowieża, il bosco più antico del continente. Questo bosco, simile a un mare di alberi, rappresenta un ostacolo insormontabile per migliaia di persone che cercano di fuggire dalle terre lontane. Il secondo muro, che si erge di fronte alla finestra di casa dei nonni di Kasia a Łódź, è il muro del cimitero ebraico del ghetto di Litzmannstadt, un triste ricordo del passato. Attraverso questo viaggio personale e pericoloso, la regista si sforza di riconciliarsi con il proprio passato. Il messaggio emergente è chiaro: l’accoglienza non dovrebbe fare distinzioni; chiunque sia in pericolo merita aiuto. In un continente che si definisce democratico, l’innalzare muri non dovrebbe essere una soluzione. Questo film non solo è un diario intimo, ma anche una denuncia coraggiosa e necessaria.

Kasia Smutniak – Regista

C’era un solo modo per poter girare questo documentario. Essere in pochi, girare il più possibile e di nascosto. È nato cosi questo strano progetto, con una preparazione mirata a essere invisibili. Mur nasce dalla necessità di analizzare la condizione umana e la drammatica situazione al confine tra Polonia e Bielorussia. Volevo a tutti costi raccontare quello che stava succedendo nella “zona rossa” e vedere con i miei occhi il famigerato muro del quale non esistevano fotografie, solo poche, confuse informazioni. Nel mio Paese d’origine stavano costruendo il muro più grande d’Europa lungo 186 km. La scelta di farmi accompagnare da una filmaker, che come me è di fatto un personaggio del film, mi ha dato la possibilità di instaurare un dialogo con lo spettatore. Marella non è solo l’occhio che racconta la realtà, ma si racconta, percepisce e si emoziona con me, ha un suo punto di vista preciso. Abbiamo usato mezzi leggeri come smartphone, go-pro, reflex, sia per la voglia di usare un linguaggio semplice e immediato ma anche perché, in fondo, era l’unico modo possibile per fare riprese, il più delle volte, in situazioni di reale pericolo. Ho deciso di espormi in prima persona, fare da specchio a quello che stava succedendo intorno a me, mettendo in gioco anche la mia storia personale. Utilizzando linguaggi visivi diversi ho voluto restituire quella che è stata per me questa esperienza: il ritmo del film segue la concitazione del viaggio ma lascia anche spazio a momenti di dialogo e di silenzio, come ad esempio nel ghetto e nelle lunghe notti passate alla guida. Con la musica ho voluto creare un filo conduttore tra i vari muri: oltre ai muri veri e propri (quello in costruzione, quello del ghetto), anche il bosco è la barriera più difficile da oltrepassare. La scelta del jazz all’inizio del film, perché la sua imprevedibilità e la sua libertà d’espressione si legava bene all’incipit di questo racconto. Nella scena girata al confine ucraino invece ho deciso di utilizzare un brano composto da tre musicisti: uno ucraino, una russa e un italiano, che restituisce bene la dura realtà di quel momento e la straordinaria forza di donne e uomini di varie nazioni, uniti per aiutare i profughi ucraini. Il brano che accompagna il finale, la mia storia familiare, è un brano polacco, che richiama le atmosfere del passato oltre a celebrare la mia terra, le mie radici.

Durante la conferenza stampa a Roma Kasia Smutniak ha affermato:

In qualche maniera mi sono trovata a essere spettatrice di un inizio di qualcosa, che io chiamo la genesi del male, la genesi di un conflitto, la genesi di un muro. Quell’inizio era la cosa che mi interessava dal punto di vista proprio umano, Quando è che ti scatta nella testa quel momento, da quando passi da una foto che vedi su un cellulare all’azione. Le persone che racconto nel film sono delle persone normali, solo una di loro è una ragazza che ha scelto attivismo come la sua strada di vita. Lei è Silvia una ragazza italiana di Milano, l’unica che si rende conto che ha bisogno degli strumenti sia psicologici sia di quelli strutturali per portare avanti questo come lavoro,  mentre gli altri invece sono quelli che si sono trovati lì quasi per caso, sono le persone comuni, un operaio, una ragazza che neanche vive in Polonia, un ragazzo che è un grande studioso della cultura araba e quindi parla l’arabo e ha pensato “vado lì mi rendo utile parlo arabo e gli do una mano” e si è trovato a essere coinvolto in una situazione dove ha dovuto fare molto di più che tradurre poi c’è Eva, questa donna che vive li vicino, è forse la sua maturità anche con l’età gli permette di guardare tutto con da un’altra prospettiva Ma di fatto era un inizio, era proprio la genesi di qualcosa che m’interessava raccontare. 

Non so se era chiaro fin dall’inizio. Però io in qualche maniera ero attratta dal fatto di mettere al confronto il presente e il passato, tramite la mia storia personale, quella della mia famiglia che è una storia non particolarmente interessante ma che in qualche modo è legata a dei luoghi e questi luoghi hanno una memoria come il ghetto di Litzmannstadt oppure la casa abbandonata della mia nonna in quale non entravo da vent’anni e speravo davvero di poter, in qualche maniera, unire il presente e il passato perché davvero non credo che è impossibile capire certi conflitti o le crisi senza avere un quadro completo e questo si lega molto bene anche con la crisi che è scoppiata da pochi giorni in Gazza, la seconda guerra che ha delle radici e molto drammatiche che sono legate con il passato e per raccontare questo muro che stava dove è partita la costruzione nel mio paese, la Polonia, è la mia ossessione per questo muro, mi sono trovata in una situazione di ossessione per quel muro. Io sono Polacca, sono nata dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino ma c’era qualcosa di più che non capivo inizialmente e volevo esplorarlo.

L’idea era quella di togliere la tragedia dal contesto e farla diventare tragedia per sé. Un punto di vista di una ragazza che diventa uno sguardo, con le proprie emozioni, con la propria voce e il movimento della camera. Chi guarda diventa lei stessa, perché è più facile identificarsi con qualcuno che non capisce, ma giustamente pone domande molto semplici: “Ma che cosa sta succedendo? Perché indignarsi di fronte a un’ingiustizia ovvia?” Quando è presentato in un certo modo, questa ovvietà perde senso in qualche maniera. Marella è diventata uno sguardo alla purezza, una persona che non ha bisogno del contesto per capire se una cosa sia giusta o sbagliata. È diventato un viaggio di due donne, cosa che ci è stata di grande aiuto. Essere donne in questo caso è stato fondamentale perché siamo state completamente sottovalutate, almeno nelle nostre intenzioni e in quello che potevamo effettivamente fare. Avere una compagna di viaggio che non veniva dalla Polonia ci ha fatte diventare giornaliste straniere e anche questo è stato più facile.
Kasia Smutniak - Mur
Kasia Smutniak – Mur

La cameraman Marella Bombini che ha accompagnato l’attrice polacca in questo difficoltoso viaggio ci ha parlato di come sono state effettuate le riprese del film.

Marella Bombini

Noi abbiamo girato in realtà con una piccola telecamera, quando potevamo la utilizzavamo, quando io e Kasia eravamo da soli, quando eravamo in ambienti in cui potevamo tirarla fuori e poi appunti telefono perché in alcuni posti, oltre al fatto che non potevamo essere in quel posto a prescindere, sarebbe stato difficile tirar fuori una camera e poter riprendere. E alla fine ci siamo resi conto che lo smartphone dava la verità del racconto, rappresentava quello che accadeva, abbiamo fatto quello che un po’ tutti fanno tutti i giorni racconto la quotidianità. All’inizio eravamo preoccupate che fosse un limite quello di aver girato centinaia di ore, almeno la metà con il telefono o la GoPro, e poi ci siamo resi conto che era la forza del racconto. Anche il telefono cellulare si sposta perché ho paura di riprendere la guardia, perché non capisco quello che sta dicendo, che capiva solo Kasia che parla Polacco ti dà quel senso di verità, ti faceva essere con noi li dentro. Io ero la cameraman ma ogni tanto girava anche Kasia. Ci sono stati dei momenti in cui lei ha girato da sola e aveva due telefoni, uno nascosto in tasca e uno in mano, ed è diventato il nostro strumento. Però abbiamo usato anche la camera dove potevamo, io raccontavo quello che accadeva ma allo stesso tempo raccontava lei, perché volevo far venir fuori anche l’ossessione di Kasia che era h24 ore con la testa lì, ad un certo punto ero anche preoccupata, perché eravamo immersi i questa strana realtà fuori dal mondo in cui era facilissimo lasciarsi prendere e non capire il limite in cui potersi spingere.

Kasia Smutniak

Ho avuto paura, ma a chi importa? La mia paura non può mai essere paragonata alle paure che stanno vivendo in quella situazione. Avevo paura solo di una cosa: temevo di trovarmi in una situazione dove avrei dovuto scegliere come protagonista. Avevo timore di trovarmi in una situazione che sarebbe stata decisiva per me. Non sono forte, ed è importante raccontarlo. Non sono un supereroe in grado di immagazzinare chissà quante informazioni, storie, tragedie, foto, video e testimonianze su testimonianze. Volevo raccontare che non essere forte non è una debolezza. Questo, credo, è un tentativo di essere sincera.

Viviamo ogni giorno, soprattutto da alcuni anni, in un contesto dove la nostra vita è diventata normale. Poi apro un giornale, perché sono abituato, abituata, a leggere le notizie iniziali, è “bum”. Stai sul telefono, sui social media, guardi sciocchezze, guardi cose per distrazione. E in un attimo, in un secondo, vengo trasportato in una storia di cui, come essere umano normale, non siamo in grado di farci carico. Questa cosa avviene a me e immagino anche per molte persone qui in sala, sono i nostri tempi. Ma i nostri tempi sono anche quelli in cui oggi abbiamo l’accesso all’informazione, siamo noi che dobbiamo scegliere cosa guardare, chi ascoltare. Abbiamo questa responsabilità. Fare questo parallelo con la nostra storia del passato: le tragedie c’erano sempre, accadevano sempre nella nostra natura umana. Ma mai come adesso siamo stati spettatori. Oggi hai la possibilità, di vedere su cellulare un ragazzo su TikTok che trasmette direttamente dalla striscia di Gazza: questo fa di te una persona informata, e questo sapere comporta una certa responsabilità.
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