Dogman (2023). Il dolore e la violenza degli uomini randagi

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Dogman

Titolo originale: Dogman

Anno: 2023

Nazione: Stati Uniti d’America (USA), Francia

Genere: Thriller

Casa di produzione: Luc Besson Production, EuropaCorp

Distribuzione italiana: Lucky Red

Durata: 114 min

Regia: Luc Besson

Sceneggiatura: Luc Besson

Fotografia: Colin Wandersman

Montaggio: Julien Rey

Musiche: Éric Serra

Attori: Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Clemens Schick, John Charles Aguilar, Grace Palma, Alexander Settineri, Lincoln Powell

Trailer di Dogman

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Dal 12 ottobre 2023 arriva nei cinema italiani, Dogman, per la regia di Luc Besson, presentato in concorso alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 31 agosto 2023. Le riprese del lungometraggio sono iniziate nel giugno 2022 a Newark, nel New Jersey per poi trasferirsi nei teatri di posa di Tigery, in Francia. All’interno dei film sono stati usati ben 65 cani.

Trama di Dogman

La storia parla di Douglas, un giovane uomo che ha vissuto un’infanzia alquanto brutale, poiché vittima di abusi fisici e psicologici da parte della sua stessa famiglia. La particolarità della sua storia sta nel fatto che, per un quantitativo di tempo non precisato, il ragazzo viene rinchiuso dal padre in una gabbia di cani randagi e trattato come tale, come punizione per aver ripudiato la famiglia. Ora adulto, Douglas vive con l’unica famiglia che lo ha accolto, i suoi cani… e con loro gestisce un business dove offre protezione a persone fragili, indifese e vittime delle angherie altrui.

Fotogramma di Dogman (2023)
Fotogramma di Dogman (2023)

Note di regia

Luc Besson

L’ispirazione per Dogman è scaturita, in parte, da un articolo che ho letto su una famiglia francese che ha rinchiuso il proprio figlio in una gabbia quando aveva cinque anni. Questa storia mi ha fatto interrogare sull’impatto che un’esperienza del genere può avere su una persona a livello psicologico. Come riesce una persona a sopravvivere e a gestire la propria sofferenza?

Con Dogman ho voluto esplorare questa tematica. La sofferenza è uno stato che accomuna tutti noi e il solo antidoto per contrastarla è l’amore. La società̀ non ti aiuterà̀, ma l’amore può̀ aiutare a guarire. È l’amore della comunità̀ di cani che Dogman ha fondato a fungere da guaritore e da catalizzatore.

Dogman non sarebbe il film che è senza Caleb Landry Jones. Questo complesso personaggio aveva bisogno di qualcuno che potesse incarnarne le sfide, la tristezza, il desiderio, la forza, la complessità. Le persone guardano i film per cogliere una sorta di verità dalla storia, anche se sanno che si tratta di finzione. Volevo essere il più onesto possibile nella realizzazione del film. Voglio che proviate dei sentimenti nei confronti del protagonista, di ciò che fa, delle azioni che compie come reazione alla sofferenza che ha patito. Vorrete fare il tifo per lui. Spero che il pubblico possa elaborare nella propria mente ciò che Dogman ha subito, il dolore che è davvero difficile da ingoiare. Ha sofferto più di quanto la maggior parte delle persone potrà mai soffrire, eppure possiede ancora una dignità”, ha concluso il cineasta

Recensione di Dogman

Alphonse de Lamartine

Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane

Si apre con questa citazione l’ultima opera di Luc Besson, acclamato regista di grandi cult anni ’90 – tra cui, il più conosciuto “Leon: The Professional”, “Nikita” e “Quinto Elemento” – per citarne alcuni. Un titolo che non può fare a meno di ricordare quella perla del 2018 del nostro connazionale Matteo Garrone, due Film che condividono molti aspetti, oltre al nome, quello più lampante è il rapporto di fiducia e di affetto fra i cani e l’uomo, l’altro è la rappresentazione di un personaggio ai margini della società. Dogman di Luc Besson è un film sensazionalistico però, lontano dalla glaciale e desolata regia di Garrone, molto più improntato ad impressionare, a far emozionare il pubblico, a scendere giù nel tunnel della miseria e del dolore insieme al suo protagonista. Un film che per questo ricorda anche un’altra pellicola, ovvero “Joker” di Todd Phillips, per la natura sensibile ed un pò disturbata del suo protagonista. Douglas (Caleb Landry Jones) è un uomo che ha sofferto parecchio durante la sua infanzia, dove subisce numerosi traumi e violenze sia fisiche che psicologiche da parte della sua famiglia. Questo dolore sia fisico che emotivo, questa mancanza di amore che lo porta sempre più a sentirsi emarginato dalla comunità, una mancanza che lo spinge a diventare una persona parecchio sensibile e in un certo senso squilibrata… come lo è anche la giovane protagonista (Natalie Portman) di “Leon” in qualche modo, che si avvinghia e infine si infatua della figura del suo salvatore in modo ossessivo, e lo fa perché gli manca una figura che gli possa dare sicurezza e affetto nella sua vita. Il suo è un affetto disperato, e quando uno è disperato trova affetto dove capita, fra sia esso un glaciale killer assassino (Leon), il suo istruttore (Nikita) o dei Cani con cui condivide una gabbia. Per cui Douglas, come Joker e Mathilda ha bisogno di trovare il suo posto nel mondo, il suo angolo dove essere accettato da Dio, dagli altri e stare bene con se stesso. Douglas trova conforto nei suoi cuccioli, nello spettacolo, nella performance artistica… insieme ad altri outsider come lui.

Ferito dai traumi del passato, Douglas comunque non perde i valori e le virtù per essere una persona decente, e stare sulla retta via… questo per dimostrare quanta forza di spirito abbia questo ragazzo, per non lasciarsi andare alle sue emozioni più oscure nonostante ciò che ha subito. Per fortuna, o per mano di Dio, Douglas riesce a non compromettersi e a trovare degli stratagemmi, dei palliativi per incanalare e rimediare in qualche modo a tutta la sofferenza che ha dentro di sé. Uno di questi è il travestimento. L’arte sembra essere un altro di quei rifugi per chi non si sente adeguato nella società… Douglas si esibisce e diventa qualcun altro, entrando nel mondo immaginario per evadere dalla sua realtà, che è molto triste e desolata a quel punto della sua vita.

La storia incomincia con Douglas, che per qualche ragione a noi ignota, all’inizio del film viene fermato dalla polizia in stato confusionale e viene trattenuto per una valutazione psichiatrica. Da qui scopriremo cosa è successo tramite la conversazione che Douglas intrattiene con la Dottoressa Evelyn. La psichiatra (Jojo T. Gibbs) farà fare al giovane un tuffo nel passato, nei momenti più decisivi e importanti della sua vita… e infatti la sensazione non è quella di star assistendo ad un interrogatorio per scoprire perché è finito lì, ma che sia una sorta di confessionale, un’occasione per Douglas di far conoscere la sua storia e diventarne il protagonista, come se avesse di fronte a lui un pubblico da impressionare (e di fatti ce l’ha) e per fare in un certo senso chiusura, per dare un senso agli avvenimenti della sua vita, mettendoli in ordine e creando un racconto che finisce esattamente come è cominciata la sua odissea. Il tempo sembra sospeso all’interno di quella stanza della stazione di polizia, e sembra che la realtà si stia conformando al suo stato d’animo e alla storia che ci sta raccontando. La psichiatra però, pone però un’acuta osservazione a questa parabola in discesa che il ragazzo sembra destinato ad avere. Douglas dopo una certa sembra quasi rassegnato, si convince che il suo destino non possa cambiare, e che quindi lui debba continuare a subire la vita… non vede più un futuro per lui, nessuna possibilità di salvezza o felicità. Douglas vede se stesso come un’anima condannata a vivere nella disperazione, nella miseria, nella sofferenza. Douglas però non è arrabbiato, non porta rancore, non ha risentimento dentro di sé… di fatti il suo atteggiamento sembra quello di un’uomo che non ha più nulla da perdere, un cane sciolto passatemi il termine, un vero emarginato, un vero outsider che sà di non poter vivere serenamente come tutte le altre persone.  Besson lo inquadra e lo dirige come se fosse un’entità che pensa e agisce con criteri completamente diversi da persone che vivono nella società di oggi. La psichiatra però non è d’accordo con il suo discorso, secondo lei è tutta una questione di scelte, di libero arbitrio… e che nessuno ha un destino scritto, nessuno è condannato.

Douglas però sembra non avere neanche più le forze per immaginare sé stesso in un’altra condizione, la miseria è l’unica condizione che conosce e a cui sente di appartenere, quindi secondo lui non c’è via di scampo.  Riesce a guardare la sua vita e il suo futuro solo con il filtro delle esperienze che ha vissuto e che lo hanno formato, come se non potesse scappare dal suo passato e debba in un certo senso rimanere “in parte” (nel personaggio) e portarsi dietro tutto il pacchetto di emozioni e sensazioni che comporta la sua esistenza, continuando a vivere con quelle convinzioni, con quella desolazione, con quella solitudine interiore, con quella infelicità che è diventata la sua costante e quindi il suo porto sicuro. La sensazione è che in qualche modo, Douglas si vada a cercare conferme del suo essere inadatto alla società, come se andasse proprio a cercare la compassione altrui raccontando le continue avversità e delusioni che la vita gli presenta… per poi andare a concludere il suo spettacolo (la sua vita) con la performance finale.

Sostanzialmente sacrifica la sua vita, come se avesse capito che l’unica soluzione per trovare realmente sollievo, fosse lasciarsi morire.

Il martirio nel cristianesimo è la condizione che il seguace (martire, dal greco μάρτυς, cioè «testimone») subisce, per difendere la propria fede in Cristo o per difendere la vita di altri cristiani.

Douglas è un uomo di fede, deve esserlo per continuare a sopravvivere, e in questo caso la sua fede viene riposta nei suoi Cani, che sono in pratica l’aiuto che Dio gli offre. Questo viene chiaramente mostrato nella scena in cui lui rinchiuso nella gabbia legge al contrario il manifesto religioso estremista appeso da suo fratello.

In inglese “GOD” al contrario diventa “DOG” = CANE

Douglas è quindi stato da sempre un’uomo di Dio (da lì ne scaturisce il suo alias) che soffre in modo ingiusto le angherie e le persecuzioni di altri essere umani… ma che usa quel dolore inflittogli, per diventare una sorta di vendicatore e proteggere le persone più deboli. Come se fosse stato prescelto, come se il dolore fosse il suo superpotere in qualche modo. Ed è sotto questa luce che decide di raccontare la sua storia, è solo trasformando il suo dolore in qualcosa di virtuoso, che può rivedere la sua vita e dargli un senso. Douglas diventa il catalizzatore di tutta la sofferenza umana, colui che subisce il male e che lo restituisce macchiandosi di atroci azioni, per tutti noi.  O almeno, questo è ciò che ci, e si, racconta per sopportare meglio un’esistenza irrimediabilmente dolorosa, alla quale deciderà di mettere fine.

La sensazione è che il film intero sia una sorta di racconto autobiografico, dove il protagonista si autocommisera per la sua condizione di vita vissuta, con noi e la sua interlocutrice che veniamo inondati da questo fiume di dolore e sofferenza. L’intento sembra quello di volerci far vivere lo stato d’animo del protagonista nel corso del suo racconto di vita, ma la storia spinge forse un pò troppo sulle sue disavventure, che a volte non sembrano neppure così tragiche da giustificare alcuni suoi comportamenti, ed ecco che la parte meno riuscita del film risulta essere proprio ciò su cui si basa la sua struttura, ovvero il racconto a ritroso. 

Le scene che ci ci illustrano i traumi di Douglas, non sono d’impatto, sono molto grezze e crude ma poco impattanti perché non ci danno il tempo di entrare in quella memoria, sostanzialmente sappiamo che sono solo ricordi e non c’è molta immersione emotiva se non nell’efferatezza e crudeltà dei gesti. Forse questa narrazione della storia pare forzata e frettolosa, proprio perché sappiamo che sta venendo narrata da lui stesso. Dall’altra parte è un tipo di narrazione affascinante per come Besson scrive il personaggio di Douglas e per come la storia giri intorno a lui che racconta di sè, e che in conclusione finisca il suo arco narrativo (che ci racconta lui stesso) nel tempo presente da dove incomincia la pellicola, quindi fuori dal suo passato. 

E’ interessante come, essendo un racconto su di sè, venga fuori anche l’ego della sua persona… si capisce in ogni scena del suo passato che quelli sono momenti che una persona racconterebbe come se si trovasse in un film, come se fosse il protagonista di una storia, si nota quindi la percezione unicamente soggettiva e superficiale degli eventi, come è giusto che sia. Non è però totalmente credibile e immersivo questo racconto, che non si sviluppa nel tempo presente, e che è solo illustrativo nel passato che ci racconta lui, il tempo predominante sembra essere proprio la stanza dell’interrogatorio, perché anche s a schermo ci sono altre immagini noi rimaniamo sempre là dentro e non è mai percepibile una palpabile tensione per ciò che accade. E’ una pellicola interessante da vedere assolutamente come tutti i film di Besson che nonostante qualche alto e basso, riescono comunque a lasciarti qualcosa su cui riflettere una volta finiti.

Dogman è un film che prima di tutto intrattiene per tutta la sua durata, nonostante alcune scelte campate per aria, e riesce a farti pensare a come l’essere umano riesca a ritirarsi sù dopo migliaia di batoste che la vita gli riserva e continuare a sopravvivere anche nelle condizioni più dolorose che lo affliggono.

RED CARPET - DOGMAN - Caleb Landry Jones and Katya Zvereva (Credits Lorenzo Carmellini La Biennale di Venezia - Foto ASAC)
RED CARPET – DOGMAN – Caleb Landry Jones and Katya Zvereva (Credits Lorenzo Carmellini La Biennale di Venezia – Foto ASAC)

In conclusione

In “Dogman” di Luc Besson, il protagonista Douglas, interpretato da Caleb Landry Jones, affronta una vita di sofferenza e marginalizzazione, trasformando il dolore in forza per proteggere gli altri. Il film esplora i traumi del suo passato e la sua relazione con i cani, riflettendo sul suo senso di emarginazione e desiderio di appartenenza. La narrazione, seppur basata su un racconto retrospettivo, manca talvolta di profondità emotiva, dando l’impressione di una rappresentazione superficiale degli eventi. Tuttavia, il film intrattiene per tutta la sua durata e offre spunti di riflessione sulla resilienza umana di fronte alle avversità.

Note Positive:

  • “Dogman” offre una rappresentazione affascinante e complessa del protagonista Douglas, interpretato magistralmente da Caleb Landry Jones, che riesce a trasmettere la profonda sofferenza e la resilienza del personaggio.
  • Il film esplora tematiche profonde come il dolore, la solitudine e la ricerca di affetto e sicurezza, offrendo uno sguardo coinvolgente sulla vita di un outsider.
  • La storia di Douglas, pur basandosi su un racconto retrospettivo, intrattiene per tutta la sua durata, mantenendo l’interesse dello spettatore.

Note Negative:

  • Nonostante l’interpretazione impressionante di Caleb Landry Jones, alcune parti del film sembrano superficiali nella rappresentazione dei traumi del protagonista, mancando talvolta di profondità emotiva.
  • La struttura del racconto retrospettivo potrebbe risultare confusa per alcuni spettatori, rendendo difficile l’immergersi completamente nella storia del personaggio.
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