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Dying to divorce
Titolo originale: Dying to divorce
Anno: 2021
Paese: Gran Bretagna
Genere: Documentario
Produzione: Chloe Fairweather, Sinead Kirwan
Durata: 80 minuti
Regia: Chloe Fairweather
Sceneggiatura: Chloe Fairweather
Fotografia: Lilia Sellami
Montaggio: Andrea Cuadrado, Paul Dosaj
Musiche: Andy Cowton
Dying to divorce è un film documentario del 2021 diretto da Chloe Fairweather, presentato alla seconda edizione del Terraviva Film Festival, che si è svolto dal 16 al 20 novembre 2021, festival che ha affrontato temi sociali urgenti e fondamentali tramite lungometraggi e masterclass. La pellicola ha vinto il sia il Premio Raffaele Pisu che il Premio Terraviva Studenti, ed è stato selezionato come candidato britannico agli Oscar 2022 per il miglior film straniero.
Trama di Dying to divorce
Il documentario segue l’avvocata e attivista, Ipek, in lotta contro la violenza domestica che colpisce le donne turche, sempre più vittime di uomini abusivi e di una politica caratterizzata da una democrazia fortemente indebolita e basata sul modello patriarcale. Ipek si adopera per prevenire i delitti e mandare in galera i colpevoli di violenza.
Recensione di Dying to divorce
In Turchia una donna su tre ha subito violenza e abusi, ed è il numero più alto nei paesi sviluppati; è con questi dati che si apre il documentario struggente e doloroso della regista Chloe Fairweather. L’esposizione di queste informazioni inquietanti analizzano la criticità della violenza di genere del paese: tanti, troppi, sono i femminicidi che uccidono le donne turche che, purtroppo, non ottengono giustizia.
Le storie che la regista segue, con la tipica macchina a mano del documentario d’inchiesta, sono nello specifico quelle di due donne vittime di uomini violenti, carnefici resi liberi dalla società patriarcale e maschilista, ciò che l’avvocata, una delle protagoniste del film che segue con passione i casi, cerca di combattere con tutti i mezzi possibili. Lo spettatore è investito da sentimenti disarmanti dinanzi a quello che il documentario ha il coraggio di mostrare: le ferite fisiche e psicologiche di queste vittime in continua lotta contro un paese che non le ascolta.
Sono storie di donne forti e in guerra perenne, vittime di una doppia violenza; quella del loro partner e quella della società fortemente patriarcale che legittima e non punisce severamente, come dovrebbe accadere in un paese in cui vige l’uguaglianza. La polizia turca non difende la vittima, piuttosto tenta di riconciliare i coniugi; la politica non tutela le donne abusate ma predica un’idea della figura femminile e famiglia a dir poco medievale e lesiva. E’ un paese problematico e poco accogliente quello che viene mostrato in questa pellicola autentica e coraggiosa. Un paese che punisce severamente coloro che condannano un governo ingiusto piuttosto che chi perpetra la violenza di genere. Le donne turche, le attiviste che nel film vengono mostrate e raccontate, sono in guerra per la democrazia, per i diritti basilari dell’essere umano, per la banale (che nella realtà dei fatti mai lo è) libertà.
Frame di Dying to divorce
Cinque anni di riprese narrano l’evoluzione, o forse sarebbe meglio definirla involuzione, della situazione in Turchia, che rimane pericolosamente radicata in un’idea di società tossica, in cui non esiste giustizia e in cui persino gli avvocati, incaricati di difendere le vittime, rischiano la vita.
Interessante e rivelatrice la storia dell’avvocata attorno a cui ruota il documentario. Ella è il mezzo più affidabile tramite il quale lo spettatore viene a conoscenza delle mancanze del sistema giudiziario, cui pene nei confronti degli uomini abusivi risultano assolutamente non adatte: l’analisi risulta accurata, interessante e, purtroppo, poco rassicurante.
Protagonista di una delle due storie di violenza domestica narrate nel film
La speranza che il documentario cerca di trasmettere, seppur limitata dai fatti narrati, è quella di non vedere violati, ancora e ancora, i diritti delle donne turche. Ma è ciò che sta continuando ad accadere, come i fatti di cronaca attuali testimoniano.
La pellicola è un grido di lotta, un pugno allo stomaco, una visione dolorosa ma necessaria. La volontà della regista, Chloe Fairweather, è quella di occupare lo spazio che spetta alle donne, di ottenere giustizia: di fare rumore.
Note positive
- Storie interessanti e intense
- Regia e scrittura coraggiosa
- Esposizioni di dati e informazioni utili
Note negative
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