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Il grido
Titolo originale: Il grido
Anno: 1957
Nazione: Italia
Genere: Drammatico
Casa di produzione: Spa Cinematografica, Robert Alexander Productions Inc.
Distribuzione italiana: CEIAD
Durata: 116 minuti
Regia: Michelangelo Antonioni
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini, Ennio De Concini
Fotografia: Gianni Di Venanzo
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musiche: Giovanni Fusco
Attori: Steve Cochran, Alida Valli, Betsy Blair, Dorian Gray, Gabriella Pallotta, Lynn Shaw, Mirna Girardi, Guerrino Campanili
Trailer di “Il grido”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Il grido, presentato in anteprima internazionale alla decima edizione del Locarno Film Festival il 14 luglio 1957 — dove ottenne il Prize of the Jury of the Swiss Association of Film Journalists — e successivamente alla Mostra del Cinema di Venezia il 3 settembre dello stesso anno, rappresenta il quarto lungometraggio di Michelangelo Antonioni. La sua genesi, tuttavia, affonda le radici nel decennio precedente: la sceneggiatura era stata concepita già alla fine degli anni ’40, in parallelo alla lavorazione del documentario Gente del Po (girato nel 1943 e distribuito nel 1947), considerato tra le prime espressioni del neorealismo italiano, insieme a Ossessione di Visconti.
Nel 1954, Antonioni divorziò dalla sua prima moglie, Letizia Balboni, dopo oltre dieci anni di matrimonio. I turbamenti legati a quella separazione si riflettono in Le amiche (1955), film incentrato sulle difficoltà sentimentali di un gruppo di donne, che si conclude con la protagonista che sceglie l’indipendenza anziché la servitù coniugale. Un senso di angoscia e autocritica accompagnò il regista anche nella lavorazione del progetto successivo, in maniera evidente, che lui stesso ammise di aver affrontato “in uno stato di depressione”.
Se Le amiche era tratto da un romanzo al femminile (Tra donne sole di Cesare Pavese), Il grido assume un punto di vista decisamente maschile — e profondamente personale. La storia, scritta da Antonioni già alla fine degli anni Quaranta, ruota attorno a un operaio che, dopo essere stato abbandonato dalla compagna, vaga per la Pianura Padana inseguendo invano diverse donne. Gli sceneggiatori Elio Bartolini ed Ennio De Concini collaborarono allo sviluppo della sceneggiatura (Bartolini lavorerà ancora con Antonioni per L’avventura e L’eclisse).
Nonostante l’idea fosse pronta da tempo, Antonioni attese diversi anni prima di realizzarla: sentiva di dover maturare ulteriormente prima di affrontare una narrazione così cupa e pessimista. Solo nel 1956, dopo aver diretto quattro film di successo e dopo la fine del matrimonio, il momento sembrò propizio. Per finanziare il progetto, la SpA Cinematografica collaborò con la Robert Alexander Productions, fondata dall’attore americano Steve Cochran — noto più per la sua vita sentimentale turbolenta che per la carriera cinematografica — che assunse anche il ruolo da protagonista.
Le riprese si svolsero nell’inverno tra il 1956 e il 1957 in svariate località della Pianura Padana, tra Emilia-Romagna e Veneto: Occhiobello, Pontelagoscuro, Stienta, Porto Tolle, Porto Garibaldi, Bondeno, Ravenna, Ravale e Francolino. Curiosamente, Il grido riutilizza parte delle ambientazioni già presenti in Ossessione e Gente del Po, ambientandosi lungo una vasta e sconfinata riva del Po, che diventa metafora visiva della condizione esistenziale del protagonista.
Nonostante il riconoscimento ottenuto a Locarno, il film fu un clamoroso insuccesso sia di critica che di pubblico. Al botteghino incassò appena 25 milioni di lire, e la critica italiana dell’epoca lo stroncò, incapace di coglierne la profondità. Contrariamente a quanto avviene nel 2025, Il grido gode oggi di ampio consenso critico, tanto che nel 2008 il Ministero dei Beni Culturali, in collaborazione con la Mostra del Cinema di Venezia e Cinecittà Holding, ha inserito la pellicola nella lista dei 100 film da salvare — opere che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il ’42 e il 1978.
Va infine ricordato che lo stesso organo, nel 1957, aveva classificato il film come vietato ai minori di sedici anni, costringendo Antonioni a tagliare alcune sezioni del lungometraggio. Queste parti sono state reintegrate nel 2024, grazie al restauro effettuato da The Film Foundation e dalla Cineteca di Bologna.
Trama di “Il grido”
Aldo, operaio in una fabbrica di zucchero nel cuore della pianura padana, vive da sette anni una relazione informale con Irma, dalla quale ha avuto una figlia, Rosina. Quando Irma apprende della morte del marito, emigrato da tempo a Sydney, Aldo intravede finalmente la possibilità di formalizzare il loro legame e dare riconoscimento legale alla bambina. Ma il suo desiderio si infrange contro la confessione di Irma: si è innamorata di un altro uomo, con cui desidera vivere.
Ferito nel profondo, Aldo tenta disperatamente di riconquistarla, ma un litigio violento e pubblico segna la fine definitiva del rapporto. Spinto dal dolore e dalla confusione, l’uomo decide di abbandonare Goriano insieme alla piccola Rosina, intraprendendo un percorso incerto attraverso la pianura.
La prima sosta lo conduce da Elvia, sua ex compagna, ora sarta, che lo accoglie con diffidenza. Aldo cerca di riavvicinarsi, ma il peso emotivo del passato con Irma rende impossibile qualsiasi nuova connessione. Elvia lo affronta con lucidità: non può essere solo un rifugio, un porto sicuro quando tutto crolla. Se vuole restare, deve amarla. Di fronte a questa verità, Aldo comprende di non poter restare e riprende il suo viaggio con Rosina. Ha inizio così un vagabondaggio continuo tra i paesini della pianura padana, dove Aldo svolge lavori umili e incontra diverse figure femminili. Tra queste, Virginia, vedova e proprietaria di un benzinaio, la quale lo accoglie per qualche mese. Ma anche questa parentesi si chiude, e Aldo riparte da solo, alla ricerca di qualcosa che possa restituirgli luce e senso, al di là di Irma.
Recensione di “Il grido”
Con Il grido, Antonioni rende evidente e tangibile il fil rouge della sua cinematografia e la sua lettura del mondo circostante e della condizione stessa dell’essere umano. Già nelle pellicole precedenti — da I vinti a Le amiche — aveva raccontato, all’interno di storie profondamente corali, la condizione umana attraverso una lente pessimistica e talvolta depressiva, riempiendo la sua filmografia dei primordi con storie di uomini e donne appartenenti alla classe borghese, incapaci di raggiungere una vera e propria felicità, imprigionati dentro una sorta di male di vivere. Questi personaggi provano dentro di sé un vuoto interiore e una noia esistenziale che li conduce a compiere l’indicibile: assassinare, forse per ricercare una scarica di adrenalina capace di risvegliarli dal torpore, oppure suicidarsi, per porre fine alla sofferenza interiore, al fine di far tacere quel vuoto che non riescono a colmare da soli.
Come dichiara Rosetta Savoni ne Le amiche, dove ammette di “non bastarsi a sé stessa”, dando voce al suo tormento interiore che si placa solo tra le braccia dell’uomo che ama profondamente, anche nel protagonista de Il grido, Aldo, possiamo rintracciare la medesima condizione umana. Questo rende evidente come denaro e appartenenza sociale non contino quando si parla della psiche dei personaggi, o in questo caso di depressione — parola mai pronunciata nei due film, ma che ne permea profondamente la natura di questi due individui. In Aldo, tale condizione risulta più marcata ed evidente che in Rosetta, soprattutto nell’ultima parte della pellicola, quando dichiara apertamente di non avere più voglia di fare nulla, neppure di lavorare, perdendo dunque la voglia stessa di vivere. L’unica differenza nell’affrontare questa patologia esistenziale, secondo la visione di Antonioni — che priva i suoi personaggi di ogni forma di speranza — è l’ambiente circostante. Se da un lato il malessere di Rosetta viene rappresentato tra feste, cene e ambienti benestanti, diluendo la sua miserabilità interiore, con Aldo si racconta il dolore dell’uomo entro spazi luridi e poveri, in piccole stanze e baracche, luoghi comuni della classe proletaria. A causa della loro miserabilità, il dolore e la depressione assumono una valenza più brutale e profonda, evidenziando con forza la crisi esistenziale dell’individuo che si ritrova a vivere — come in questo caso — come una sorta di vagabondo, immerso in una vita di squallore, dopo aver avuto, fino a poco tempo prima, un tetto sopra la testa e un po’ di cibo caldo ad attenderlo, ottenuti grazie a un lavoro fisso che ora non ha più, denotando così un suo decadimento interiore che si riversa verso l’esterno, peggiorando la sua condizione di uomo.
Nonostante la rappresentazione dei due mondi sia drasticamente divergente, la condizione vissuta da Rosetta e Aldo non è poi così distante. Se Rosetta trova senso nel vivere solo tra le braccia di Lorenzo — personaggio completamente negativo — Aldo, uomo della classe proletaria, ricerca il benessere interiore nella fuga da Irma, la donna che ama e che lo ha tradito. Si ritrova così a intraprendere un vagabondaggio costante, viaggiando in un mondo vuoto, squallido e angosciante, alla ricerca di una nuova ragione di vivere, che non cerca tanto in sé quanto nell’altro. Durante il viaggio, però, Aldo comprende, forse, che, nonostante l’altro, nonostante l’amore di altre donne incontrate lungo il cammino, non può fuggire da sé stesso, dai suoi traumi e dal malessere interiore che lo accompagna dall’inizio alla fine del suo percorso. Infatti, per tutto il suo viaggio — che lo conduce verso una condizione sempre più decadente e peggiorativa — Aldo ricerca costantemente, anche involontariamente, Irma e ciò che lei gli donava: calore, serenità, felicità piena e totale.
Il suo terminare tra le braccia di tre donne (di un film composto così in episodi) è un tentativo disperato di ritrovare quel barlume di luce che rendeva accettabile la sua condizione di uomo miserabile nell’altro, non in sé. Ma non riesce mai a superare il suo trauma interiore, né a comprendere le radici del suo malessere. Del suo passato non sappiamo nulla, non abbiamo informazioni sullo sviluppo dei suoi traumi interiori, l’unica certezza che abbiamo è che Irma e l’amore che provava per lei rappresentavano l’unico sprazzo di luce nel suo mondo grigio e desolante. Senza di lei, senza il suo amore, Aldo è perso e noi seguiamo la sua perdizione, in un viaggio all’interno della pianura padana. In un viaggio dove non abbiamo personaggi positivi e negativi, ma semplicemente essere umani realistici né buoni né cattivi.
Il paesaggio come metafora
In questo film, che procede in modo circolare — iniziando e terminando nello stesso modo, ritrovando il protagonista là dove lo avevamo visto all’inizio, ovvero su un silos — il cineasta compie un intelligente gioco metaforico con il paesaggio, che diventa una metafora visiva esplicita dell’interiorità di Aldo. La vasta pianura padana, apparentemente senza fine, costituita da luoghi spogli e privi di alberi, paesi fangosi e desolanti, rimarca con forza il malessere esistenziale vissuto dal protagonista — accentuato dalla fotografia in bianco e nero firmata da Gianni Di Venanzo. Grazie al direttore della fotografia e grazie alla regia di Antonioni l’ambiente naturale viene restituito in tutta la sua vastità opprimente, con campi lunghi e inquadrature statiche che sembrano ingabbiare i personaggi in uno spazio privo di vie di fuga. La luce morbida e diffusa, priva di bagliori, contribuisce alla costruzione di un’atmosfera sospesa, quasi irreale, dove il tempo si dilata e il paesaggio si svuota di qualsiasi possibilità salvifica.
Interessante a livello simbolico, come Di Venanzo colloca spesso il protagonista ai margini dell’inquadratura, sottolineandone visivamente l’estraneità al mondo e la sua progressiva perdita di identità. La fotografia diventa così uno strumento poetico e narrativo, capace di raccontare silenzi, distanze interiori e fratture emotive. In Il grido, dunque ogni immagine è pensata per evocare, più che per mostrare — ed è proprio in questo rapporto profondo tra visione ed emozione che il film costruisce il suo linguaggio espressivo più autentico.
Proprio attraverso l’uso della fotografia, il paesaggio diventa una allegoria della condizione umana, del vuoto e della solitudine interiore di Aldo, che — anziché camminare in avanti in un mondo variegato — sembra camminare dentro la propria anima, ritrovandosi sempre e solo dinanzi a sé il nulla, la miseria e il vuoto, da cui non riesce a fuggire. Una visione che richiama la filosofia stessa di Antonioni, secondo cui l’uomo, per natura, è incapace di essere felice.
In Il grido, Michelangelo Antonioni compie un passaggio decisivo nella sua poetica, spostando lo sguardo dalla borghesia — protagonista delle sue opere precedenti — alla classe proletaria, e lo fa attraverso un racconto che si configura più come metafora esistenziale che come narrazione lineare. Il paesaggio della Pianura Padana, piatto, uniforme e desolato, diventa il vero protagonista silenzioso del film: non è solo sfondo, ma specchio della condizione umana e sociale di Aldo, operaio abbandonato dalla compagna, che vaga con la figlia Rosina in cerca di un senso, di un appiglio, di una via d’uscita.
La pianura, nella sua assenza di rilievi, nella sua ripetitività visiva, assume una valenza simbolica potente: è lo spazio dell’immobilità sociale, della sospensione esistenziale, dove ogni tentativo di cambiamento si dissolve nella monotonia del paesaggio. Aldo cammina, incontra persone, cambia luoghi, ma non cambia mai davvero condizione. Il suo viaggio non ha direzione né meta, e il tempo stesso sembra dilatarsi, perdere contorni: un anno, forse due, ma senza alcuna trasformazione o evidenziazione temporale. È come se il mondo intorno a lui fosse privo di prospettiva, e la mancanza di una montagna — di un punto elevato, di una visione diversa — diventa metafora dell’impossibilità di elevarsi, di uscire dalla propria condizione interiore e sociale.
Il cineasta, con questo film, suggerisce che per il proletariato degli anni ’50, la geografia è destino: nascere nella pianura significa restare intrappolati in un orizzonte che non cambia, in un paesaggio che non offre vie di fuga né speranza. Il paesaggio diventa così una prigione emotiva e sociale, una distesa infinita che riflette la solitudine, la perdita, l’inadeguatezza. Il grido non racconta solo la storia di un uomo, ma la condizione di una classe, e lo fa attraverso una regia che destruttura lo spazio, lo svuota di riferimenti, lo rende adimensionale.
In conclusione
Il grido rappresenta uno spartiacque nella poetica di Antonioni, dove il silenzio, lo spazio e l’uomo si intrecciano in una metafora visiva ed esistenziale capace di raccontare la condizione umana attraverso la vastità emotiva della Pianura Padana. La regia essenziale e la fotografia spoglia restituiscono un viaggio nella desolazione, nella perdita, nella crisi individuale e sociale. Aldo, nel suo vagare senza meta, incarna la dissolvenza dell’identità, un urlo interiore che rimane inascoltato.
Note positive
- Passaggio tematico dalla borghesia alla classe proletaria
- Uso poetico e simbolico del paesaggio come allegoria
- Regia sobria e potente nella sua essenzialità
- Interpretazioni realistiche
Note negative
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Sceneggiatura |
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Colonna sonora e sonoro |
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SUMMARY
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4.0
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