Pelé: il re del calcio – Il mito di O Rei

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Pelé: il re del calcio

Titolo originale: Pelé

Anno: 2021

Paese: Gran Bretagna

Genere: documentario

Produzione: Pitch Production

Distribuzione: Netflix

Durata: 108 min.

Regia: Ben Nicholas, David Tryhorn

Fotografia: Michael Latham

Montaggio: Matteo Bini, Andrew Hewitt, Julian Hart

Musiche: Antônio Pinto, Gabriel Ferreira Felipe Kim

Protagonisti: Pelé, Zagallo, Jairzinho, Roberto Rivellino, Brito, Coutinho, Jorge Arantes, Benedita da Silva, Paulo César Lima, Pepe, Zevi Ghivelder, Edu, Antônio Delfim Netto, Lima, Amarildo, Dorval, Mengálvio

Trailer italiano di Pelé: il re del calcio

Il regista premio Oscar Kevin Macdonald (L’ultimo re di Scozia, 2006; State of Play, 2009) è il produttore esecutivo di Pelé: il re del calcio, documentario disponibile su Netflix dal 23 febbraio. Alla regia è presente il duo composto da Ben Nicholas e David Tryhorn, già collaboratori per Crossing the Line (2016) nei rispettivi ruoli di produttore e regista. Il secondo cineasta, in particolare, vanta una solida esperienza nella produzione di documentari sportivi, data la sua partecipazione a progetti come Kenny (S. Sugg, 2017), Dan Carter: A Perfect 10 (L. Mellows, 2019), Andy Murray: Resurfacing (O. Cappuccini, 2019) e la serie All or Nothing: Brazil National Team (F. Briso, L. Ferraz, D. Ramirez-Suarez, 2020).

Trama di Pelé: il re del calcio

Nel 1958, mentre in Brasile imperversano grandi cambiamenti, un calciatore dal talento straordinario contribuisce a realizzare il sogno di una nazione. È Edson Arantes do Nascimento, più noto come Pelé, giovane attaccante della Seleção nato a Três Corações. Dopo aver realizzato uno dei più grandi gol del Campionato Mondiale di calcio (il primo alla Svezia nel Mondiale ’58, deciso con un sondaggio sul sito della FIFA nel 2002), molte persone iniziano a ritenere che sia nato un nuovo campione. Si sbagliano. A essere nato non è un campione. Ma un mito. La cui leggenda è appena cominciata…

Recensione di Pelé: il re del calcio

Nel documentario diretto da Ben Nicholas e David Tryhorn, fra le molte sequenze interessanti, è presente una scena dove Pelé sostiene che, dopo un grande successo, è il sollievo a costituire l’emozione più intensa. La gioia, da molti considerata l’esito più naturale in seguito a un trionfo, per la leggenda brasiliana non riveste la maggiore importanza: una considerazione che rivela già molto sul carattere del numero 10. In effetti, la grandezza di O Rei deriva dalla spontanea propensione a non apparire come un leader “rumoroso”, ma al contrario, affine a quei giocatori che, attraverso le loro gesta, rappresentano autentici esempi per gli altri compagni. “Pelé ti faceva credere di poter essere come lui”, sostiene nel documentario un ex calciatore della Seleção. Un commento che chiarisce l’influenza di un’istituzione del calcio come Pelé all’interno della nazionale del Brasile. Una squadra che, il 16 luglio 1950, era stata protagonista di un’autentica disfatta, venendo sconfitta nell’allora nuovissimo Maracanã (Rio de Janeiro, 1950) dalle reti segnate da Juan Alberto Schiaffino e Alcides Ghiggia.

La vittoria ottenuta dalla Celeste coniò il termine Maracanazo, sentenziando il complesso di inferiorità di cui soffrivano i brasiliani e imbarazzando addirittura il presidente della Fédération Internationale de Football Association (FIFA), Jules Rimet, che nelle proprie memorie scrisse: “All’uscita del tunnel, un silenzio desolante dominava lo stadio. Né guardia d’onore, né inno nazionale, né discorso, né premiazione solenne. Mi ritrovai solo, con la coppa in mano e senza sapere cosa fare. Nel tumulto finii per scoprire il capitano uruguaiano, Obdulio Varela, e quasi di nascosto gli consegnai la statuetta d’oro, stringendogli la mano, e me ne andai, senza riuscire a dirgli una sola parola di congratulazioni per la sua squadra”. Eppure, nonostante una nazione in preda alla disperazione, in una povera famiglia di Três Corações cresce il giovane Pelé, entusiasta ammiratore del padre calciatore Dondinho e deciso a diventare un campione.

Il talento esplode immediatamente. Il Santos lo acquista e nel 1958 la Seleção vanta un nuovo attaccante. Nel Mondiale svedese, ben raccontato dai registi Nicholas e Tryhorn, Pelé lascia subito il segno. Il Brasile vince per la prima volta la coppa, e in quel momento le lacrime scivolano sul viso del giocatore, non solo per aver ottenuto una straordinaria vittoria a soli 17 anni, ma anche per aver dato retta ai consigli offerti da suo padre e aver contribuito a stabilire una nuova immagine del proprio Paese. In tal senso, una nota positiva del documentario è certamente ampliare il tema verso derivazioni fortemente sociali e storiche. Il Brasile, per esempio, inizia a essere riconosciuto come la patria di quello strepitoso attaccante, ma anche, per tutte le persone, come una provenienza da comunicare con fierezza. Il premio Oscar Kevin Macdonald riesce quindi a trasmettere quell’inversione di tendenza promossa da Pelé, un atleta (e un’icona) capace, per via del suo talento e di quel magnifico sorriso, di travalicare i confini delle sport, irrompendo nella scena di una nazione comunque in tumulto.

Il golpe del 1964, dopo il secondo Mondiale vinto nel ’62 (con O Rei infortunato dalla seconda gara), costringe il Brasile a sottostare a una dittatura militare autoritaria. Il calcio però prosegue la sua quotidianità, con il numero 10 del Santos che continua a infiammare le folle. In tal senso, il documentario, grazie a video d’archivio e interviste anche a giornalisti, editor e politici, riesce a ricostruire l’epoca del regime dei Gorillas, evidenziando persino i contrasti all’interno della Seleção. Del resto, in seguito al Mondiale perso nel 1966, con un Pelé claudicante nella partita contro il Portogallo di Eusébio, O Rei decide di ritirarsi dalla nazionale, ma la dittatura, volenterosa di manifestare la propria forza anche all’estero, promuove il suo ritorno. In questo caso, Pelé non segue (o non può forzatamente seguire) ciò che ha perseguito Muhammad Ali negli Stati Uniti d’America con la renitenza alla leva. Tuttavia, come raccontato nel documentario, ciò conduce O Rei non solo a raggiungere un altro incredibile risultato (il Mondiale del 1970), ma anche a cambiare nuovamente il proprio Paese. Come a ricordare che, nonostante le proteste, i soprusi, le critiche, il Brasile avrà sempre qualcuno di cui andare fiero. Qualcuno che “non faceva la differenza, ma era la differenza”. E soprattutto, qualcuno in grado di dimostrare che si possono compiere grandi gesta anche partendo da un piccolo campetto di Três Corações.

Note positive

  • La presenza di molti giocatori della nazionale brasiliana e, ovviamente, di O Rei
  • La presenza di video e immagini esclusive
  • La regia di Ben Nicholas e David Tryhorn
  • Le ricostruzioni delle varie epoche, capaci di raccontare, anche grazie a interviste extra calcistiche, il mondo fuori dal campo

Note negative

  • Nessuna da segnalare
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