Ritratti cinematografici di un’Italia d’autore, l’Italia di Luca Guadagnino.

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Stravagante, esteta, mai banale, Luca Guadagnino, palermitano doc, classe 1971, nei suoi film, perle figlie di un senso estetico unico nel suo genere, non racconta l’Italia, la ritrae, la dipinge come Monet faceva con le sue ninfee, in un modo sempre simile, ma anche differente. Che si parli del profondo nord o della sua amata Sicilia, dopo un film o una serie di Guadagnino non ci si dimentica mai degli scorci e delle vedute regalate allo spettatore, come in una lunga passeggiata nella quale il luogo è stato protagonista quanto gli attori della storia stessa. La visione delle sue opere espone così lo spettatore a una passeggiata da contorni indefiniti, ma da una bellezza pura.

I 7 film di Luca Guadagnino

In “Io sono l’amore” Guadagnino riporta una storia divisa in capitoli, un trittico di città e ambienti differenti, al cui centro troneggia una Milano borghese e fastosa, di alto rango, fatta di lussi e ricevimenti importanti.Il regista palermitano mostra allo spettatore una Milano invernale, ma al tempo stesso non classicamente malinconica: sin dalle riprese iniziali sull’imponenza della stazione centrale, splende la neve su tetti e distese e questa coltre bianca che copre i nobili e maestosi palazzi del centro rende la grande metropoli da un lato una gabbia lussuosa da cui fuggire, ma dall’altro anche un fitto mistero nel quale essere avvolti, il mistero dei suoi personaggi, così apparentemente semplici, ma così interiormente pieni di contrasti e lo spettatore osservando questa lunga sequenza di riprese che dà inizio al film non sente soltanto l’austerità, la severità, la mentalità rigida con cui la Milano nebbiosa viene sempre descritta e che anche nelle dinamiche della famiglia Recchi emerge, bensì l’idea che da subito Guadagnino vuole comunicare è quella di una grande città da notti bianche, piena di segreti, di sentimenti nascosti o repressi, una Milano in cui spiccano le ampie finestre dei palazzi del centro, come occhi indiscreti sulle complessità della vita familiare, perché come diceva Tolstoji “ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. In un certo senso sembra quasi che Milano non sia lì per caso, viene citata e descritta dalle parole della straniera della famiglia, ma anche aliena alla borghesia milanese, la protagonista Emma (Tilda Swinton), ma sembra ricalcare la bellezza nascosta, la solo apparente freddezza e la voglia d’amore del temperamento russo che lei e i suoi giovani figli, interpretati da Flavio Parenti e Alba Rohrwacher, le cui storie sono al centro della narrazione, incarnano.

Tilda Swinton è Emma/Kittish in una scena di "Io sono l'amore" a Milano
Tilda Swinton è Emma/Kittish in una scena di “Io sono l’amore” a Milano

Antitetica alla Milano ricca e artefatta, ma dai contorni misteriosi del primo capitolo, vi è una Liguria incolta e selvaggia, nella quale Emma ritrova l’amore nel giovane e promettente cuoco Antonio, amico del figlio Edoardo, ma ritrova allo stesso tempo un senso di appartenenza universale: è la natura intorno a Sanremo a essere teatro di un ritorno alle origini per la protagonista, non solo per la passione selvaggia e sconfinata che torna a vivere, ma anche per il modo in cui la natura viene vissuta dai due amanti, pieno e finalmente senza finzioni, senza barriere o convenzioni. Questo è anche il modo in cui Guadagnino riprende quelle colline, le radure verdi, le cascate ed i torrenti intorno tra i quali Emma e Antonio si amano. Intorno a Sanremo nel film l’estate splende, il calore del sole illumina le case, ma anche i corpi nudi e le visioni dei due personaggi sono a tratti sfocate, epifanie di una bellezza che solo la natura sa restituire. Milano e la Liguria sono come due facce della stessa medaglia nella vita di Emma: da un lato una vita nella quale lei stessa cerca di entrare a fatica, dall’altro la vita sperata, sognata,una vita nella quale finalmente ritrova la sua antica e iniziale identità, quella in cui non ha il nome italiano di Emma, ma quello russo di Kittish.

Emma nella campagna sanremese
Emma nella campagna sanremese

Nel lungo racconto dell’Italia di Guadagnino non poteva mancare l’acclamatissimo Chiamami col tuo nome”, ispirato all’omonimo romanzo di Andre Aciman, ma trasposto in chiave tutta italiana nel nord Italia, o meglio “da qualche parte nel nord d’Italia”, come recita la ormai celebre scritta in giallo con cui il film ha inizio. La storia d’amore tra Elio e Oliver, la riscoperta di un’omosessualità mai sospettata da entrambi, la dolce e spensierata estate di una famiglia mezza americana, mezza francese, ma ancorata alle tradizioni ebraiche e al profondo amore per la filologia e per l’archeologia sono raccontate con uno sguardo onirico, un sogno di cui la campagna dorata e afosa del sud della Lombardia, tra Crema, Cremona e Mantova è perfetta ambientazione. Così Guadagnino racconta e dipinge i sentieri sterrati, i vecchi casali in cui le vecchiette ancora lasciano fuori le fave e in cui il passato non è totalmente alle spalle, i bar di paese, nei quali risuona la musica anni 80’, le piazzette che richiamano le battaglie combattute lungo il Piave, Elio e Oliver riscoprono un locus amoenus, culla di quella complicità che diventa passione ed è proprio questa “campagna felice” a regalare ai due protagonisti i momenti migliori della loro storia, dal primo bacio, lussurioso e quasi proibito, in mezzo ai campi, ai dialoghi filosofici presso un vecchio fontanile, fino alle scene di passione tra i vicoli di una Bergamo vecchia ancora più affascinante sotto le luci della notte e la mitica danza di Oliver davanti alla Cappella dei Colleoni presso la Basilica di Santa Maria Maggiore. In “Chiamami col tuo nome” questi volutamente sconosciuti luoghi della Lombardia diventano il terzo amante e l’occhio sensibile del regista siciliano li rende romantici, pittoreschi, colorati anche più del normale di tonalità calde, come il verde intenso, il giallo, il color pesca, note estive, per luoghi mai considerati delle mete tradizionalmente estive e il risultato è uno splendido quadro, italiano, ma non troppo,anzi forse senza spazio e senza tempo.

Timothée Chalamet e Armie Hammer sono Elio e Oliver in una scena di "Chiamami col tuo nome"(2017) nella campagna vicino Crema
Timothée Chalamet e Armie Hammer sono Elio e Oliver in una scena di “Chiamami col tuo nome”(2017) nella campagna vicino Crema

Al di fuori della “trilogia del desiderio”,l’affresco dell’Italia di Guadagnino si sposta in una fantomatica base militare a pochi passi dalla costa del Veneto, tra Rovigo e Chioggia. Con la serie We are who we areLuca Guadagnino, supportato in sceneggiatura dalle abili mani di Paolo Giordano, racconta il difficoltoso processo di crescita di ragazzi senza patria, senza famiglia, senza radici, capaci di scoprire e al tempo stesso nascondere desideri e disagi. Negli otto episodi della serie prodotta da HBO, questi luoghi sempre sospesi nel tempo e nello spazio (“Right here,right now” recita l’inizio di ogni episodio), proprio come in “Chiamami col tuo nome”, sono luoghi che celano segreti, sguardi rubati, la ricerca di un’identità propria e non omologata, ma non sempre ameni:il mare di Chioggia non è una splendente spiaggia italiana, ma un’oasi selvaggia e a tratti oscura e lo stesso borgo di Chioggia in versione notturna tinge i suoi colori pastello di nebbia mentre accompagna la protagonista Caitlin, adolescente alla riscoperta della propria identità sessuale, tra consapevolezza, comprensione e accettazione.

ack Dylan Grazer è Frazer in una scena di "We are who we are"(2020)
Jack Dylan Grazer è Frazer in una scena di “We are who we are”(2020)

Per quanto spesso doloroso e tinto di note fredde nella rigida e statica rappresentazione di una base militare che è una gabbia per l’espressione del vero io dei giovani protagonisti, Guadagnino regala comunque nell’ultimo episodio, quello conclusivo, il sogno: Caitlin e Fraser,“scappano” per una sera a Bologna per ascoltare i Blood Orange dal vivo e qui si compie quella magia a cui Bologna stessa con la sua bellezza prende parte. Non è semplicemente una città di notte illuminata ,ma è ciò che Guadagnino decide di rappresentare del capoluogo emiliano a rendere l’atto finale di “We are who we are” un autentico incantesimo, un’alchimia perfetta come quella che inaspettatamente coinvolge anche i due protagonisti. Lo spettatore viene così ammaliato dalle luci quasi gialle dei lampioni in una Piazza Grande totalmente deserta, dalla magnificenza dei portici di San Luca, descritti come “il posto più bello del mondo” e protagonisti della scena forse più romantica e vera di tutta la serie, oppure dal mistero di quella finestrella che da un portico conduce alla piccola Venezia, uno scorcio caratterizzato da piccoli canali tra le casette colorate tipicamente bolognesi, un richiamo a quell’alchimia che spesso solo Venezia stessa sembra poter esprimere, ma che, essendo Guadagnino un virtuoso della bellezza più viva, viene a essere trasposta inaspettatamente in un’altra città, una città che proprio come la Vienna di “Prima dell’alba” fa sospendere per una notte lo scorrere del tempo, dei problemi e dei traumi nelle vite dei due protagonisti.

Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamon sono Frazer e Caitlin nell'ultima scena di "We are who we are"(2020) a Bologna
Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamon sono Frazer e Caitlin nell’ultima scena di “We are who we are”(2020) a Bologna

Il cinema di Guadagnino parla, mostra ma anche trasforma i luoghi, li colora, ne cambia i contorni e le sfumature, ma al tempo stesso li rende partecipi delle storie che vengono raccontate, preziosi compagni di viaggio senza i quali le storie stesse non avrebbero senso.

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