Squid Game 3 (2025). Interessante, solo se si espande. 

Recensione, trama e personaggi della terza stagione di Squid Game (2025), tra brutalità, riscatto e illusioni di libertà

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Squid Game 3 (2025) – Creato da Hwang Dong-hyuk – © 2025 Netflix, Inc. – Immagine concessa per uso editoriale.
Squid Game 3 (2025) – Creato da Hwang Dong-hyuk – © 2025 Netflix, Inc. – Immagine concessa per uso editoriale.

Trailer di “Squid Game 3”

Informazioni sulla stagione e dove vederla in streaming

Per Netflix è tempo di reinventarsi. È il momento di salutare i grandi show che, per anni, hanno tenuto milioni di spettatori con il fiato sospeso. Dopo Arcane, dopo Stranger Things (che si concluderà il 1° gennaio 2026), il 27 giugno 2025 è arrivato il momento di dire addio anche al giocatore 456, protagonista assoluto di Squid Game, la serie sudcoreana che ha debuttato il 17 settembre 2021, conquistando fin da subito un pubblico globale — dalla Corea all’Italia — fino a diventare un’icona della cultura pop mondiale.

Nonostante l’enorme clamore, Squid Game non ha mai fatto incetta di premi. La prima stagione ha totalizzato 111 milioni di visualizzazioni nei primi 28 giorni, mentre la seconda ha raggiunto quota 68 milioni nello stesso arco temporale. Eppure, ai Golden Globe, la serie ha ottenuto un solo riconoscimento: Miglior attore non protagonista a Oh Yeong-su nel 2022. I premi più significativi sono arrivati ai Critics’ Choice Awards, con Lee Jung-jae premiato come Miglior attore protagonista in una serie drammatica e la serie stessa come Miglior serie straniera. Un bottino forse modesto per un titolo che ha ridefinito l’immaginario seriale contemporaneo.

La terza e ultima stagione vede il ritorno del creatore e regista Hwang Dong-hyuk, primo asiatico a vincere l’Emmy® per la Miglior Regia in una Serie Drammatica. Al suo fianco, un cast ormai familiare: Lee Jung-jae, Lee Byung-hun, Yim Si-wan, Kang Ha-neul, Wi Ha-jun, Park Gyu-young, Park Sung-hoon, Yang Dong-geun, Kang Ae-sim, Jo Yu-ri, Chae Kuk-hee, Lee David, Roh Jae-won e Jun Suk-ho. A impreziosire il tutto, la partecipazione speciale di Park Hee-soon e una sorprendente apparizione di Cate Blanchett, in veste di vera e propria guest star

Trama di “Squid Game 3”

Un’insurrezione fallita, la morte di un amico, un tradimento celato. Gi-hun — il giocatore 456 — precipita in una spirale discendente, toccando il punto più basso della sua esistenza. La sua mente è attraversata da emozioni contrastanti: il senso di colpa per aver condotto alla morte molti dei suoi compagni durante la ribellione, e una rabbia furiosa verso Dae-ho, colpevole di non aver portato i proiettili necessari alla resistenza, condannandoli a una fine certa. Mentre Gi-hun affronta una crisi psicologica profonda, il gioco continua. Perché lo Squid Game non conosce tregua, non guarda in faccia nessuno. È tempo di nuove sfide, di scelte sempre più estreme, in un contesto dove la disperazione è totale e ogni decisione può avere conseguenze fatali.

Insieme agli ultimi superstiti, Gi-hun affronta round dopo round, in un crescendo di tensione, pericolo e disperazione. Intanto In-ho, tornato nei panni del Front Man, accoglie i misteriosi VIP che, tra un drink e l’altro, si compiacciono delle morti dei partecipanti, su cui scommettono con sadico distacco. Nel mentre Jun-ho, fratello del Front Man, continua la sua caccia all’isola nascosta, ignaro che un traditore si annida tra le loro fila, pronto a sabotare ogni tentativo di verità.

Nel frattempo, No-eul — una delle guardie in tuta rossa — tenta disperatamente di proteggere Gyeong-seok, il giocatore 246, un uomo che ha scelto di rischiare tutto pur di ottenere i soldi necessari per curare la figlia, malata di leucemia.

Nell’arena, intanto, dove l’avidità corrode ogni legame, le alleanze si sgretolano, il sospetto serpeggia, e ogni scelta può diventare fatale. Mentre i giochi avanzano, la domanda resta sospesa: in un mondo costruito sul sacrificio e sull’intrattenimento della crudeltà, può esistere ancora un gesto autentico, capace di restituire umanità? Gi-hun sarà in grado di ritrovare se stesso e scegliere la strada giusta? O il sistema finirà per piegare anche la sua volontà?

Recensione di “Squid Game 3”

La terza stagione riprende esattamente da dove ci eravamo fermati: subito dopo la ribellione guidata da Gi-hun, conclusasi nel sangue. Un gruppo di partecipanti aveva tentato di abbattere il Front Man e il sistema stesso su cui si fonda lo Squid Game, con l’obiettivo di porre fine al gioco e impedirne la riproposizione futura. Fallendo.  Questo finale di stagione lasciava presagire una svolta narrativa audace e oscura, ma lo showrunner Hwang Dong-hyuk sceglie invece di restare all’interno della propria comfort zone, evitando di spingere la serie verso nuove direzioni drammaturgiche. Chi si aspettava una rottura con la struttura delle stagioni precedenti resterà inevitabilmente deluso.

Le linee narrative legate al giocatore 456 e al Front Man risultano comunque ben scritte e coerenti con l’evoluzione dei personaggi, ma ciò che manca è una spinta verso l’ignoto, una volontà di sfidare le logiche narrative consolidate nei precedenti sedici episodi. La stagione si muove con sicurezza, ma senza il coraggio di rischiare davvero, rinunciando così a quella ventata di originalità che avrebbe potuto renderla memorabile. Difatti, la stagione abbandona immediatamente la lotta di Gi-hun contro il sistema dello Squid Game, che era stato il motore centrale della seconda stagione, mostrandoci un giocatore 456 disilluso, privo di uno scopo chiaro, forse consapevole dell’impossibilità di rovesciare dall’interno un meccanismo tanto radicato. La narrazione torna così a concentrarsi — come già accaduto nella prima stagione — sul microcosmo dei giocatori, raccontandone turbamenti, paure, alleanze strategiche e legami profondamente umani, che si intrecciano nel dormitorio e durante i round.

Questa scelta consente alla stagione di approfondire i personaggi secondari, costruendo relazioni interpersonali solide, emozionanti e coinvolgenti, capaci di restituire la loro umanità più autentica. È il caso della coraggiosa Hyun-ju (giocatore 120), che si prende cura dell’anziana e gentile Geum-ja e della dolce Jun-hee, una ragazza incinta che darà alla luce la propria bambina proprio durante uno dei giochi, grazie all’aiuto delle due donne. Se questi personaggi incarnano la bontà e la solidarietà, il discorso cambia radicalmente con Myung-gi (giocatore 333), abile manipolatore assetato di denaro; con Nam-gyu, tossicodipendente crudele e bullo nei confronti di Min-su; e con il subdolo giocatore 100, pronto a usare chiunque per i propri scopi, come dimostra il suo comportamento verso la falsa sciamana Seon-nyeo.

Lo show riesce a costruire figure sfaccettate, ma tende a marcare in modo forse eccessivo la separazione tra “buoni” e “cattivi”. Le eccezioni più interessanti sono rappresentate dal Front Man, personaggio enigmatico e ambiguo, sospeso tra umanità e crudeltà disumana, e soprattutto da Yong-sik (giocatore 007): inizialmente percepito come un “buono”, rivela il proprio lato oscuro quando, per salvare sé stesso, tenta di uccidere una donna che ha appena partorito. Un gesto che mostra come la paura possa trasformare anche l’animo più gentile in qualcosa di mostruoso.

La vera ventata di originalità, se così possiamo definirla, non risiede tanto nella costruzione drammaturgica o nella scrittura dei personaggi, quanto nella creazione dei giochi. Sono proprio questi a conferire a Squid Game un senso di novità e attrattiva, catturando l’attenzione dello spettatore, incuriosito nel scoprire i nuovi round e le loro regole spietate. Il primo gioco a cui assistiamo è una versione letale del nascondino, seguito da un salto sulla corda orchestrato da due inquietanti bambole meccaniche, fino ad arrivare al temuto gioco finale: lo Sky Squid Game — una variante aerea del calamaro, ambientata su tre piattaforme sospese nel vuoto. I giochi restano il cuore adrenalinico della serie, il motore che mette a nudo i comportamenti più nefasti del genere umano: l’istinto di sopravvivenza, la crudeltà, il tradimento, ma anche — in rari momenti — la solidarietà e il sacrificio.

Nascondino 

All’inizio della sfida, i partecipanti vengono condotti in una sala d’attesa dove devono scegliere una gomma da masticare: metà sono rosse, metà blu. Il colore determina l’assegnazione alla squadra: chi sceglie il blu entra nei Nascosti, mentre chi pesca il rosso diventa un Cercatore. Una volta formate le squadre, i giocatori vengono rilasciati all’interno di un labirinto monumentale, un ambiente angosciante e labirintico, dove hanno 30 minuti per completare la propria missione. I Nascosti devono nascondersi, trovare rifugi tra le stanze e i passaggi segreti, o tentare la fuga attraverso una misteriosa uscita. I Cercatori, al contrario, devono localizzare e eliminare almeno un membro avversario. Chi fallisce il proprio compito verrà punito con la morte: in questo gioco, l’errore non prevede appello.

Entrambe le fazioni possiedo uno strumento da usare all’interno del labirinto: coloro che si devono nascondere e scappare dai rossi vengono dotati con una chiave, con cui possono accedere a porte nascoste per fuggire dalle grinfie degli aggressori, mentre questi, ovvero i Cercatori, ricevono invece coltelli cerimoniali, oggetti tanto scenografici quanto letali, con i quali devono uccidere i blu. 

Il salto sulla corda

Il regolamento di questo gioco è sorprendentemente semplice, sulla scia del famigerato Glass Bridge: l’obiettivo è attraversare una piattaforma da un’estremità all’altra. C’è sì un’enorme apertura al centro, ma non è nulla rispetto ai pannelli di vetro pronti a frantumarsi sotto i piedi del Glass Bridge. La vera insidia arriva dall’alto: a dominare la scena ci sono Young-hee e Chul-su, imponenti figure meccaniche, che brandiscono una colossale corda metallica rotante. I giocatori devono attraversare la passerella entro 20 minuti, evitando di essere colpiti e sbalzati nel vuoto dalla traiettoria della corda. Per superare la prova, l’unica strategia è quella più istintiva: saltare al momento giusto, proprio come in un gioco di bambini in cortile… 

Sky Squid

L’ultimo round di Squid Game raggiunge il culmine della tensione mescolando strategia spietata e istinto di sopravvivenza. I concorrenti si ritrovano ciascuno in cima a una delle tre torri monumentali, ciascuna con la forma di uno dei simboli iconici della serie: quadrato, triangolo e cerchio. Per procedere alla torre successiva, è necessario spingere giù almeno un avversario dalla struttura, dunque devono morire solo 3 giocatori. Ma non basta: nelle torri il gioco si attiva solo quando un giocatore preme un pulsante sul pavimento, facendo scattare un conto alla rovescia letale. Se allo scadere del tempo nessuno viene eliminato, tutti i presenti saranno giustiziati. Ma se una persona muore prima che sia avviato il timer, la morte risulta inutile. 

Il capitalismo di Squid Game

Fin dalle sue primissime puntate, Squid Game ha reso immediatamente evidenti i suoi temi portanti, a partire da un’analisi profonda sul significato stesso di umanità, connessa alla natura dell’essere umano. Un tema che attraversa l’intera serie e si incarna nel percorso di formazione e trasformazione del giocatore 456.

Non è un caso, dunque, che le ultime parole pronunciate da Gi-hun siano le stesse che lo avevano definito all’inizio: «Non siamo cavalli. Siamo esseri umani. Gli esseri umani sono…». Una frase lasciata volutamente incompiuta, come se spettasse allo spettatore completarla, colmando quel vuoto con la propria idea di umanità. Questa dichiarazione, pronunciata poco prima del finale, rappresenta forse la sintesi più potente della sua psicologia e delle scelte che lo hanno condotto fino a quel punto — compreso il crimine che, nel corso della stagione, finirà per macchiarlo. È un grido di ribellione incompiuto, ma proprio per questo ancora più lacerante.

Il riferimento ai cavalli richiama un momento chiave della serie, quando il Front Man gli diceva: «Tu scommetti sui cavalli. Noi scommettiamo sugli esseri umani. Siete i nostri cavalli.» In quel contesto, Gi-hun si era indignato, rifiutando l’idea di essere ridotto a una pedina da corsa per il divertimento dei ricchi. Ma ora, nel finale, quelle parole tornano — e assumono un significato ancora più tragico e universale.

Nel finale della terza stagione, dunque quella frase ritorna — ma con un peso diverso. Gi-hun ha attraversato l’inferno, ha visto il peggio dell’umanità e di sé stesso, toccando con mano la crudeltà e l’avidità che abitano l’animo umano. Eppure, nel momento decisivo, riafferma con forza che l’essere umano non può essere ridotto a un oggetto, a un numero, a un animale da competizione. Rivendica la possibilità di redenzione, rifiutando l’idea che l’uomo sia solo un mezzo di intrattenimento per i ricchi che si compiacciono della morte dei disgraziati — una critica feroce e profondamente coreana al capitalismo estremo. Quella dichiarazione diventa così un atto di resistenza morale, un ultimo tentativo di affermare dignità e compassione in un mondo che le ha cancellate.

Come l’intera serie, anche la terza stagione — pur senza grande originalità — aggiunge tasselli significativi alla sua critica sistemica. Il concetto di capitalismo terminale, evocato da Hwang Dong-hyuk, non è solo una provocazione teorica, ma una struttura narrativa incarnata in ogni meccanismo del gioco: non esiste più alcuna illusione di giustizia, né promessa di riscatto. I partecipanti sanno perfettamente a cosa vanno incontro, ma accettano comunque di giocare, perché il mondo esterno è altrettanto spietato. La scelta non è tra vita e morte, ma tra due forme diverse di annientamento. Dentro e fuori, la giungla è la stessa: un ecosistema dove il più forte divora il più debole.

Gi-hun incarna questa deriva morale. Se nella prima stagione rappresentava una fragile speranza di umanità, ora è il simbolo di una coscienza logorata dal sistema. Il suo gesto estremo — uccidere un altro concorrente — non è solo una svolta narrativa, ma un atto emblematico: anche chi si opponeva al gioco finisce per interiorizzarne le regole. La violenza non è più imposta, ma scelta. E questa è forse la forma più perversa di dominio.

I giochi stessi riflettono questa logica: non sono più prove di abilità o fortuna, ma esperimenti psicologici che spingono i giocatori gli uni contro gli altri in modo sempre più diretto e brutale. Il labirinto, la corda rotante, le torri geometriche: ogni ambientazione è progettata per indurre al tradimento, alla sopraffazione, alla sopravvivenza a scapito dell’altro. La competizione non è più un mezzo, ma un fine in sé — un rituale di distruzione reciproca. Una competizione che, in Squid Game, diventa metafora stessa del mondo esterno.

I VIP, raccontati nel corso dei sei episodi in modo superficiale e caricaturale, si configurano come grottesche incarnazioni del potere economico globale. Sono la voce di un’élite che ha perso ogni contatto con la realtà, che trasforma la sofferenza in spettacolo e la morte in scommessa. Un’élite annoiata dalla vita, in cerca di nuove emozioni per sentirsi viva. La loro presenza non è solo un espediente narrativo, ma una dichiarazione politica: chi detiene il potere non si limita a osservare, ma alimenta il sistema, lo finanzia, lo applaude.

Anche la democrazia viene svuotata di senso. Le votazioni, le consultazioni tra i giocatori, sono solo una facciata: un’illusione di partecipazione che maschera la totale assenza di libertà. Il Front Man manipola i partecipanti, trasmettendo a un gruppo selezionato un senso di “sicurezza” per impedire che il gioco si interrompa prima dell’ultimo round. Emblematica, in tal senso, una delle battute più taglienti della stagione: «In base al vostro voto libero e democratico, il prossimo gioco inizierà domani». La democrazia è ridotta a rituale vuoto, utile solo a legittimare la violenza.

La serie, però, perde l’occasione di approfondire davvero queste tematiche, evitando di esplorare il mondo che si cela dietro il Front Man — un universo che resta opaco e inesplorato. Dalla seconda stagione, attraverso il personaggio di No-eul, si era aperto uno spiraglio sul mondo di chi indossa le maschere e le tute rosse. Ma anche questa linea narrativa viene gestita in modo debole, relegando No-eul a un arco secondario, scollegato dalla trama principale e privo del potenziale rivelatore che avrebbe potuto avere. E No-eul non è l’unica occasione mancata. Anche l’indagine di Hwang Jun-ho, pur interessante sulla carta, non approda a nulla di significativo, risultando alla fine superflua. 

La terza stagione, pur offrendo qualche spunto tematico e chiudendo le storie di alcuni personaggi — dal numero 222 al protagonista — non fornisce una conclusione davvero soddisfacente. Si ha la sensazione che tutto si chiuda senza chiudersi, lasciando lo spettatore con un sapore amaro e la consapevolezza che la serie non ha sfruttato appieno il suo potenziale. Almeno che non sia solo l’inizio di qualcosa di più ampio. 

La scena finale di Squid Game 3 si apre su un’America assolata e indifferente, mentre il Front Man attraversa il centro di Los Angeles dopo aver lasciato la casa di Ga-yeong. È lì che un suono familiare lo blocca: il tonfo secco delle piastrelle ddakji che colpiscono il marciapiede. Si volta. In un vicolo, una figura elegante e misteriosa — interpretata da Cate Blanchett — sta giocando al celebre gioco con un poveraccio. I loro sguardi si incrociano per un istante, carichi di un’intesa silenziosa. Nessuna parola, solo la consapevolezza che il gioco non è finito. Forse non lo è mai stato.

Lee Byung-hun, interprete del Front Man, ha commentato così quel momento: «Ho pensato che fosse un finale incredibile, che nessuno avrebbe potuto prevedere. Nonostante tutti i nobili sforzi di così tante persone, il mondo continua a essere come prima.» Una riflessione amara, che chiude la stagione con una nota di disillusione e fatalismo, evidenziando come il potere e il capitalismo sembrino vincere sempre. Ma è proprio da qui che si apre un nuovo orizzonte narrativo. Squid Game potrebbe essere solo il primo capitolo di un universo più ampio, fatto di prequel e spin-off, film o serie ambientate in altri Paesi, capaci di esplorare le origini, le ramificazioni e i veri burattinai dietro il sistema. Il finale suggerisce chiaramente che, se la serie madre si è conclusa, la storia è tutt’altro che finita.

La presenza di Cate Blanchett nei panni della reclutatrice americana e lo spostamento dell’azione a Los Angeles lasciano intuire che un nuovo ciclo di giochi potrebbe prendere forma negli Stati Uniti, con dinamiche e simbolismi propri. Parallelamente, No-eul si dirige in Cina alla ricerca della figlia creduta morta, aprendo la possibilità che anche lì esista una versione locale dello Squid Game. Sennò la storia di No-eul  che senso avrebbe all’interno della narrazione?

Tutto lascia pensare che siamo solo all’inizio di una nuova fase: un’espansione globale, un cambio di prospettiva, forse persino una nuova mitologia. E se il gioco cambia volto, resta intatto il suo cuore oscuro: la disperazione umana trasformata in spettacolo. La scelta di lasciare svariate linee narrative aperte, probabilmente, non è un caso.

In conclusione

Squid Game 3 è una stagione che viaggia con il freno a mano tirato. Se da un lato approfondisce le relazioni umane e la psicologia dei personaggi, dall’altro rinuncia a rischiare davvero. Il risultato è una narrazione solida, ma spesso prevedibile, che rafforza la metafora sociale dell’opera senza espanderla in nuove direzioni. Resta un prodotto curato, affascinante nei suoi giochi e spietato nei suoi messaggi, ma segna il momento in cui la serie sceglie di giocare sul sicuro, lasciando allo spettatore più domande che risposte.

Note positive

  • Giochi sempre più ingegnosi e carichi di tensione
  • Temi sociali forti e coerenti con la visione della serie
  • Prova visiva e scenografica sempre di alto livello

Note negative

  • Mancanza di originalità nel percorso narrativo principale
  • Potenziale del Front Man e della ribellione non sfruttato
  • Temi critici accennati ma non esplorati a fondo
  • Arco narrativo conclusivo che lascia l’impressione di incompiutezza

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Intepretazione
Emozione
SUMMARY
3.9
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.