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Ziam
Titolo originale: Ziam
Anno: 2025
Nazione: Thailandia
Genere: Azione, Horror, Thriller
Casa di produzione: Kantana Motion Pictures
Distribuzione italiana: Netflix
Durata: 95 minuti
Regia: Kulp Kaljareuk
Sceneggiatura: Vathanyu Ingkawiwat, Kulp Kaljareuk, Nut Nualpang, Chonnatee Pimnam, Weerasu Worrapot
Fotografia: Pramett Chankrasse, Pakpoom Techaviset
Montaggio: Apipoo Hoontrakul
Musiche: Chatchai Pongprapaphan
Attori: Mark Prin Suparat, Nychaa Nuttanicha Dungwattanawanich, Johnny Anfone, Pimmada Boriruksuppakorn, Oak Keerati Sivakua
Trailer di “Ziam”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Ziam è il terzo lungometraggio del cineasta thailandese Kulp Kaljareuk, che si cimenta con una storia horror dal sapore zombie, costruendo una narrazione originale — il film, infatti, non è tratto da alcun romanzo, ma nasce da un soggetto scritto dallo stesso regista. Alla sceneggiatura collaborano anche Vathanyu Ingkawiwat, Nut Nualpang, Chonnatee Pimnam e Weerasu Worrapot.
Per quanto riguarda il cast, tra gli interpreti principali troviamo Johnny Anfone — noto per Kularb Nai Bpleo Fai (1992) e Fah (1998) — Nuttanicha Dungwattanawanich, celebre per Sarb Sorn Ruk (2022) e Ghost Lab (2021), e Mark Prin Suparat, apprezzato per Eclipse of the Heart (2023) e Nuea mek song: Mue prap chom khamang wet (2012).
La pellicola, prodotta da Kantana Motion Pictures, è stata distribuita a livello internazionale su Netflix a partire dal 9 luglio 2025, raggiungendo immediatamente la prima posizione tra i film più visti in Italia sulla piattaforma.
Trama di “Ziam”
In un futuro devastato dalla carenza di risorse alimentari, dove la sopravvivenza è estremamente complessa, Sing, ex campione di Muay Thai, lavora nel trasporto di cibo — una mansione ad alto rischio, poiché bande di disperati non esitano ad assaltare i camion per rubarne il contenuto e rivenderlo al mercato nero. Sing desidera abbandonare questa vita fatta di combattimenti e adrenalina, per ritrovare una parvenza di normalità accanto a Rin, la sua compagna, un’infermiera che sogna di lasciare il caos di Bangkok e trasferirsi nel suo villaggio natale, immerso nella campagna e isolato dal mondo.
Il tentativo di Sing di lasciarsi alle spalle il passato violento naufraga bruscamente quando l’ospedale in cui Rin lavora, viene improvvisamente assalito da un’orda di zombie famelici, pronti a distruggere ogni cosa sul loro cammino. Spinto dal legame profondo che lo unisce a lei, Sing si lancia in una corsa disperata per raggiungerla e proteggerla, accompagnato da Buddy, un bambino asmatico incontrato nell’inferno dell’ospedale — un inferno scatenato dallo scoppio di una epidemia zombie.
Tra corridoi infestati e minacce incombenti, Sing deve far leva sul suo spirito da combattente, usando tutta la sua forza, agilità e determinazione per farsi strada tra le creature infernali, affrontandole con calci, pugni e istinto da guerriero.
Recensione di “Ziam”
Il titolo Ziam racchiude un significato denso e multilivello, che travalica il semplice gioco fonetico. La sua alterazione grafica — uno scarto dalla parola Siam, nome storico della Thailandia fino al 1939 — assume la forma di una vera e propria dichiarazione narrativa. La “Z” iniziale, evocativa del genere zombie, non serve soltanto a classificare il film nel panorama horror, ma indica che qualcosa di profondo, corrosivo e irreversibile ha alterato l’identità del Paese. In questo senso, il titolo diventa un ponte tra passato e apocalisse: Ziam è una Thailandia contaminata, sconvolta, dove il richiamo alla storia nazionale si intreccia con la minaccia globale e la crisi sociale. La pellicola di Kulp Kaljareuk, pur muovendosi all’interno dei codici dello zombie movie, tenta di inserirsi nella tradizione del genere che — da Night of the Living Dead in poi — ha spesso utilizzato i non-morti come metafora delle tensioni sociali, dei traumi collettivi e delle storture sistemiche. Anche se il film non riesce a sviluppare in maniera efficace e intrigante una denuncia sociale incisiva, già nella scelta del titolo si rivela la volontà del regista di connotare l’opera come riflessione sull’attualità thailandese: sul senso di smarrimento, sull’identità nazionale in crisi e sull’isolamento. In questo senso, l’elemento zombie non è solo una minaccia esterna, ma diventa lo specchio deformante di una società che si chiude, si consuma e si trasfigura.
Nel lungometraggio horror il Paese non viene solo attaccato: viene riscritto. E quella “Z” — aliena, disturbante, fuori posto — è la chiave che dichiara esplicitamente le intenzioni del regista aprendo una lettura più profonda del film: quella di una terra che perde il proprio nome, e con esso una parte della propria memoria. Possiamo allora leggere il film non come semplice survival horror, ma come un esperimento simbolico che prova a intrecciare mito nazionale, trauma contemporaneo e rappresentazione cinematografica. Il cineasta tenta dunque, senza successo, di dare un spessore politica e di denuncia sociale al suo lungometraggio, effettuando una critica al proprio paese, il quale ha rinunciato al suo nome storico per abbracciare una nuova modernità — Thailandia, nome assunto ufficialmente il 24 giugno 1939, quando il governo decise di sostituire la denominazione Siam con Thailandia, che significa “Terra dei Thai” (dove Thai è inteso come “libero” nella lingua locale) — il film inverte il processo: si riappropria del passato, ma lo contamina con l’orrore.
Il titolo del film apre a un messaggio di critica sociale evidente, ma il cineasta non riesce minimamente a inserire nella narrazione elementi realmente interessanti dal punto di vista drammaturgico. Il film, alla lunga, si riduce a un horror d’azione con numerose scene di combattimento alla Karate Kid, dove il protagonista Singh stermina orde di zombie con l’ausilio esclusivo di mani e piedi, ricorrendo all’arte marziale thailandese per eccellenza: il Muay Thai.
Il lungometraggio riesce indubbiamente a intrattenere lo spettatore, grazie a un buon comparto tecnico e visivo, a un montaggio dinamico e a scelte registiche più o meno azzeccate. Tuttavia, a livello di sceneggiatura, il film mostra tutti i suoi limiti, non riuscendo a raggiungere le vette sperate dal gruppo di sceneggiatori. Questa storia di zombie e scarafaggi, ambientata in un mondo in crisi economica globale dove la carenza di cibo affligge ogni angolo del pianeta e dove Bangkok diventa l’epicentro del nuovo ordine, si perde nelle proprie ambizioni, fallendo nel raggiungere gli obiettivi concettuali iniziali. Ciò che rimane è una pellicola godibile sul piccolo schermo, pensata per chi ama il genere zombie.
La sceneggiatura, fin dal suo incipit, presenta una costruzione dell’universo narrativo e dei personaggi superficiale, rendendo il film bidimensionale nella caratterizzazione. Singh è delineato come lottatore coraggioso, mentre Rin assume il ruolo di donna delusa (prima) e poi di “donzella da salvare”. Se la prima metà del film, pur banale, mantiene una certa coerenza — con Singh impegnato a raggiungere l’ospedale per salvare la compagna — la seconda parte precipita in scelte drammaturgiche poco lucide e spesso assurde, generando evidenti buchi di trama. Tra questi, l’asma del piccolo Buddy, che diventa improvvisamente rilevante dopo aver affrontato svariati zombie; oppure il problema delle bombe impostate con un timer a 30 minuti, che sembrano non trascorrere mai. In quel lasso di tempo, i personaggi combattono zombie e militari, Rin medica Singh, lui sviene e si risveglia — tutto in meno di quindici minuti, in modo del tutto illogico. Anche l’idea di uccidere zombie a mani nude con calci e pugni risulta poco credibile, così come la trama legata al pesce, probabile origine del virus. Se davvero la pietanza è la causa dell’epidemia, perché il contagio si manifesta solo all’interno dell’ospedale e non nel resto della città, dove altri hanno consumato lo stesso alimento?
Ricalcando Demoni e The Sadness, senza la forza di quei due capisaldi del cinema Zombie.
In Ziam, la sceneggiatura si muove su binari convenzionali: Singh, ex lottatore di Muay Thai, diventa un eroe d’azione in stile Rambo, affrontando orde di zombie per salvare la sua compagna. È una struttura che privilegia l’action rispetto alla tensione psicologica (assente), e che — pur con qualche momento riuscito — non riesce a costruire una vera progressione drammatica o emotiva. Il film si affida alla fisicità degli scontri e alla spettacolarità delle coreografie, ma rinuncia a una vera esplorazione del trauma o della paura. Ed è qui che il paragone con Demoni e The Sadness diventa illuminante.
In Demoni (1985), Lamberto Bava crea un universo chiuso e claustrofobico, dove il cinema stesso diventa trappola e metafora. La narrazione è semplice, quasi fumettistica, ma la forza visiva — fatta di sangue, trasformazioni grottesche e musica metal — genera un’esperienza immersiva e disturbante. Il film non cerca spiegazioni razionali: abbraccia il caos, l’irrazionale, il contagio come possessione. E proprio questa scelta radicale gli conferisce potenza. The Sadness (2021), invece, pur partendo da una struttura simile a Ziam — un uomo che cerca di salvare la sua compagna in un ospedale infestato — spinge il genere verso territori estremi. La violenza è sadica, sessuale, disturbante. Il virus non trasforma in zombie, ma libera gli impulsi più oscuri dell’essere umano. Il film diventa una riflessione brutale sulla repressione, sulla pandemia, sulla fragilità della civiltà. E lo fa con una regia che non ha paura di scioccare, di sporcare, di far male.
Ziam, pur evocando entrambi questi modelli, sceglie una via più rassicurante. Non abbraccia fino in fondo né il delirio visivo di Bava né la ferocia ideologica di Jabbaz. Rimane in una zona intermedia, dove l’azione è spettacolare ma non disturbante, e dove l’ambientazione claustrofobica — l’ospedale — non viene sfruttata per generare vera angoscia. È come se il film avesse paura di osare, di sporcarsi, di diventare davvero scomodo, sia a livello tematico che di genere, come davvero pochi momenti angoscianti.
Dunque, il film Ziam riesce a intrattenere, ma fatica a lasciare un’impronta duratura. Questo è forse il suo limite più evidente: manca una direzione tematica solida, o perlomeno non la sviluppa con convinzione. Il linguaggio visivo e narrativo rimanendo nel territorio del convenzionale, evitando di radicalizzare il suo potenziale allegorico e simbolico — aspetto che, da sempre, costituisce una componente fondamentale del genere zombie. Dove film come Demoni e The Sadness riescono a trasformare il genere in un’esperienza viscerale, disturbante e tematicamente densa, Ziam si accontenta di una dimensione più neutra, più contenuta. Il risultato è un film che funziona a livello superficiale, ma che si dimentica facilmente: un prodotto che trova la sua efficacia nel momento, ma non costruisce memoria nel tempo.
In conclusione
Ziam è un film che cerca di contaminare il genere zombie con una valenza simbolica legata all’identità e alla memoria nazionale, ma non riesce a spingersi davvero oltre i confini dell’action orrorifico convenzionale. Se l’intento era quello di dare vita a un’opera disturbante, politica e allegorica, il risultato è un prodotto che intrattiene, ma non sconvolge, che accenna (nemmeno così tanto) tematiche profonde senza approfondirle, e che sceglie la via più rassicurante. Una visione consigliata ai fan delle coreografie marziali e dell’action zombesco, meno a chi cerca nel genere horror una riflessione intensa o uno scarto stilistico radicale.
Note positive
- Titolo denso di rimandi storici e culturali
- Comparto tecnico efficace e montaggio dinamico
Note negative
- Scrittura superficiale e personaggi bidimensionali
- Buchi di trama e scelte drammaturgiche illogiche
- Conflitto emotivo debole
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Regia |
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Fotografia |
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Sceneggiatura |
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Colonna sonora e sonoro |
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Interpretazione |
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SUMMARY
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2.7
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