Amira (2021) : la difficoltà di essere

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Amira

Titolo originale: Amira

Anno: 2021

Paese: Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita

Genere:  Drammatico

Produzione: Film Clinic, Agora Audiovisuals, Acamedia Pictures

Distribuzione:  Cineclub Internazionale Distribuzione

Durata: 98 min

Regia:  Mohamed Diab

Sceneggiatura: Mohamed Diab, Khaled Diab, Sherin Diab

Fotografia: Ahmed Gabr

Montaggio:  Ahmed Hafez

Attori: Saba Mubarak, Ali Suliman, Tara Abboud, Waleed Zuaiter, Ziad Bakri, Suhaib Nashwan, Reem Talhami

“Amira” di Mohamed Diab arriva nelle sale italiane dal 20 aprile 2023 grazie a Cineclub Internazionale Distribuzione in collaborazione con MedFilm Festival, che insieme portano al cinema il film più premiato durante l’edizione 2021 della manifestazione dedicata alle cinematografie del Mediterraneo. Con la distribuzione italiana di “Amira” si inaugura un nuovo sodalizio tra Cineclub Internazionale e MedFilm Festival che, a partire da quest’anno, si impegnano a portare in sala i film più premiati dal Festival. Presentato in concorso nella Sezione Orizzonti al 78° Festival di Venezia, dove si è aggiudicato il Premio Interfilm e il Premio Lanterna Magica, al MedFilm Festival 2021 il film ha ricevuto il Premio Amore e Psiche come miglior film e il Premio Diritti Umani Amnesty International.Ispirato a notizie di cronaca che riportano il contrabbando di sperma dei reclusi a vita per terrorismo nelle carceri israeliane, il film racconta da un’angolazione inedita il conflitto che divide due popoli e due mondi attraverso il viaggio tragico della protagonista Amira, un’adolescente palestinese che vive con la mamma ed è figlia di Nawar, detenuto in una prigione israeliana fin da prima che nascesse. Quando il tentativo fallito di concepire un altro bambino fa emergere la sterilità del padre, la famiglia scopre che Amira è in realtà figlia di un carceriere israeliano, e che il seme di Nawar era stato trafugato. Sconvolta dalla notizia, Amira decide così di mettersi sulle tracce del padre biologico: la ricerca della sua identità diviene così una riflessione universale sul senso della vita e dell’appartenenza.

Trama di Amira

Amira, una diciassettenne palestinese, è stata concepita con il seme di Nawar, trafugato dalla prigione nella quale egli è recluso. Sebbene sin dalla sua nascita il loro rapporto si sia limitato esclusivamente alle visite in carcere, il padre rimane il suo eroe. L’assenza nella vita della ragazza è però ampiamente compensata dall’amore e dall’affetto di coloro che la circondano. Tuttavia, quando il tentativo fallito di concepire un altro bambino porta a galla la sterilità di Nawar, il mondo di Amira viene stravolto.

Il cast di Amira

Commento del regista

Il fatto che nel luogo in assoluto più sacro e diviso della Terra esista una qualche forma di ‘immacolata concezione’, è tanto affascinante quanto surreale. Amira rappresenta un’esplorazione microcosmica della divisione e della xenofobia che regnano nel mondo odierno. Nell’atto di dipanare l’identità della nostra eroina, il film solleva la questione se l’odio nasca spontaneo o venga coltivato.

Scena del film

Recensione di Amira

Dei molti modi di rappresentare un conflitto Mohamed Diab, giovane regista egiziano al suo terzo lungometraggio, ne sceglie uno poco diretto e molto particolare: l’idea nasce da una notizia di cronaca, una coppia palestinese riesce a concepire un figlio nonostante il padre sia detenuto nelle prigioni israeliane. Ciò è possibile grazie a un traffico clandestino, ma in qualche modo tollerato, di sperma che esce dalla prigione e arriva a destinazione con l’aiuto di guardie corrotte.

Lo spunto di partenza permette al regista di costruire un meccanismo narrativo che si interroga si sulla condizione dei territori occupati ma anche, e forse soprattutto, di questioni filosofico – esistenziali che riguardano la natura umana e la percezione di se stessi e dell’altro inseriti in un determinato contesto sociale.

Scena del film

Di Nawar, il padre di Amira, sappiamo poco senonché è un eroe, un combattente per libertà, che si trova in prigione già da prima del concepimento della ragazza e che ora desidera avere un altro figlio con lo stesso metodo in precedenza sperimentato, tra indecisioni, ripensamenti e una intensa scena d’amore a distanza si arriva al punto nodale della vicenda: il momento in qui il seme dell’uomo giunge a destinazione e vengono fatte le analisi di rito prima dell’inseminazione. Qui si scopre, senza tema di smentita che Nawar è sterile, e di conseguenza Amira non può essere sua figlia. Il racconto della trama può interrompersi a questo punto per non rovinare la visione degli sviluppi ulteriori che saranno drammatici quanto sorprendenti.

La protagonista è Amira, un’adolescente che vive nel mito del padre come molti giovani palestinesi, questa è una delle caratteristiche del conflitto che insanguina da oltre ottant’anni quei territori, è infatti attraverso la costante celebrazione degli eroi di guerra, spesso detenuti a vita nelle prigioni nemiche, che si tramanda il senso eterna ribellione di un popolo contro il suo invasore ed è così che le nuove generazioni diventano i destinatari della missione iniziata dai padri perpetrando all’infinito la lotta e l’odio per il popolo nemico. La passione della giovane è la fotografia e in particolare l’editing attraverso photoshop, un modo creativo quanto artificioso di riunire la famiglia al padre, marito e figlio definitivamente lontano, che assume un ruolo cardine a livello simbolico contribuendo a rappresentare l’artificiosità di un ménage familiare poco naturale conseguente a una condizione di guerra che induce inevitabilmente a continui adattamenti e rimodulazioni di comportamenti altrimenti ordinari.

Tara Abboud in una scena del film

Dopo la rivelazione Amira, e in qualche misura anche sua madre, si trova a dover riconsiderare la propria posizione nel mondo; la notizia la porta dall’essere la figlia di un eroe acclamato in tutto il paese a non essere nessuno neanche per la propria famiglia e a sentire di aver perso il ruolo naturale che aveva nella società. Nonostante le rassicurazioni dei suoi cari emerge con forza la difficoltà a posizionarsi in un contesto che ha perso il suo principale punto di riferimento. Contesto che oltretutto prevede una struttura ben delineata nella quale la donna occupa una posizione sempre subalterna benché sia mitigata da una certa modernità. Il film evidenzia in maniera molto precisa questo aspetto della società palestinese come dimostrano le dinamiche interne alla famiglia che si dipanano una volta emerso lo scandalo: quella che sembrava una famiglia unita e armoniosa viene scossa, suo malgrado, da regole patriarcali ineluttabili che prevedono una serie di azioni inderogabili.

Il procedere della storia fa emergere con forza il contrasto tra rapporti familiari per noi quasi arcaici e una società comunque modernizzata in cui i dispositivi tecnologici sono pervasivi come in occidente e la comunicazione sfugge a ogni controllo tanto che telefonare dal carcere grazie a mini apparecchi facilmente occultabili diventa una semplice routine.

Come detto il film tocca altri temi oltre a quello della vicenda principale, è un modo infatti anche per riflettere sulle divisioni e sulla xenofobia che imperversano su quella particolare porzione di mondo e per estensione nelle maggiori società civilizzate, sentimenti accentuati e incancreniti da un conflitto infinito, indaga sulla percezione di se stessi, su come quanto questa sia predefinita dalle particolari condizioni in cui si nasce e si cresce oppure quanto invece sia il prodotto di un’autodeterminazione cosciente, infine lambisce, senza dare seguito, il tema della diversità e dell’omosessualità.

Il regista Mohamed Diab

Dal punto di vista stilistico Diab sceglie di rappresentare la vicenda seguendo l’impostazione di scrittura che sottolinea la passione per la fotografia della protagonista, vediamo infatti Amira illuminata diversamente a seconda dei passaggi narrativi e dei diversi stati d’animo che la attraversano, la scelta d’inquadrare lei e la madre attraverso grate e ostacoli visivi rappresenta in maniera molto efficace la condizione di limitazione dei personaggi e non manca qualche citazione bergmaniana insieme a espedienti di grande efficacia ottenuti giocando sui riflessi dei volti. Da sottolineare le interpretazioni delle due attrici Saba Mubarak (Warda la madre di Amira) e Tara Abboud (Amira) che offrono una prova di grande intensità emotiva e forza interiore.

Amira è un film toccante che partendo da una vicenda personale getta una luce su un aspetto del conflitto poco descritto che da un’idea del radicamento di sentimenti e pregiudizi che regolano i rapporti tra due popoli costretti a condividere un territorio conteso.

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