Brick (2025). Bloccati in casa da un muro tecnologico

Recensione, trama e cast del film Brick (2025). Un thriller tedesco Netflix tra claustrofobia, metafore emotive e muri magnetici

Condividi su
Matthias Schweighöfer e Ruby O. Fee in Brick di Matthias Schweighöfer; Cr. Courtesy of Netflix ©2025 © Sasha Ostrov / Netflix
Matthias Schweighöfer e Ruby O. Fee in Brick di Matthias Schweighöfer; Cr. Courtesy of Netflix ©2025 © Sasha Ostrov / Netflix

Trailer di “Brick”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Direttamente catapultato alla prima posizione della Top Ten dei film più visti su Netflix il 12 luglio 2025, Brick è un lungometraggio di genere thriller fantascientifico diretto e sceneggiato dal cineasta Philip Koch, noto per aver firmato il film Picco (2010) e tre episodi della serie televisiva Tribes of Europa, di cui è anche il creatore e lo sceneggiatore. Il film è stato distribuito sulla piattaforma streaming il 10 luglio, dopo una prima tedesca tenutasi il 2 luglio dello stesso anno. Nel ruolo dei protagonisti troviamo Matthias Schweighöfer — regista e attore di Army of Thieves (2021) — e Ruby O. Fee, che aveva già collaborato con Schweighöfer proprio in Army of Thieves. Alla produzione del lungometraggio troviamo la W&B Television, nota per aver prodotto la serie televisiva Dark. 

Trama di “Brick”

Tim, programmatore di videogiochi, vive da due anni un periodo estremamente complesso, chiudendosi completamente in sé stesso. Anche la sua compagna Olivia attraversa una fase emotivamente delicata: la coppia è segnata dalle conseguenze di un parto non andato a buon fine, che ha portato alla morte del loro figlio, trasformando un momento di gioia familiare in un dramma profondo. Questo evento ha generato una frattura tra i due, con Tim che si rifugia nel lavoro, dedicandosi ossessivamente alla creazione del suo videogioco, evitando così di affrontare il proprio dolore ed escludendo dalla sua intimità la compagna. 

Dopo due anni di stallo emotivo, Olivia prende una decisione drastica e inaspettata: si licenzia dal lavoro e, una mattina, comunica a Tim la volontà di lasciarlo. L’uomo, colto di sorpresa, è stordito e impreparato. Olivia è decisa a partire per Parigi, meta di un viaggio che avrebbero dovuto fare insieme. Ma proprio nel momento in cui apre la porta per uscire, accade l’impensabile: davanti a loro si erge un muro nero di mattoni tecnologici, impenetrabile e inquietante. Chi ha costruito quel muro? Perché è lì? Esiste una via d’uscita da questa situazione assurda e improvvisa? Oltre all’impossibilità di lasciare l’abitazione, la coppia scopre che l’acqua non scorre più dai rubinetti, aggravando ulteriormente la condizione di isolamento e mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. 

Tim e Olivia decidono di agire: iniziano a scavare passaggi tra gli appartamenti, cercando una soluzione all’enigma. Durante questa esplorazione, incontrano altri inquilini: Ana e Marvin, una coppia che fa uso di sostanze stupefacenti; la giovane Lea con il nonno; e il misterioso Yuri, ex-poliziotto convinto di conoscere la verità dietro il muro. Ogni incontro aggiunge tensione e complessità alla narrazione, trasformando il condominio in un microcosmo emotivo dove la claustrofobia si mescola alla paura, alla diffidenza e alla speranza.

Recensione di “Brick”

Non sorprende che un lungometraggio come Brick abbia conquistato immediatamente la prima posizione su Netflix il 12 luglio 2025, considerando che il film tedesco — pur privo di attori o nomi di grande richiamo — presenta una trama piuttosto intrigante e avvincente, almeno sulla carta. Quando un utente si imbatte in una sinossi come: “Tim e Olivia devono unire le forze con i vicini per salvarsi, dopo che all’improvviso un misterioso muro circonda il loro condominio”, la curiosità si accende, attratta sia dalla situazione claustrofobica — un gruppo di persone bloccate in un luogo senza sapere il perché — sia dal mistero legato alla comparsa improvvisa del muro.

Ammetto che è stata proprio questa sinossi a spingermi a premere play e a guardare il film. Tuttavia, al termine della visione, Brick si è rivelato una vera delusione: un prodotto audiovisivo mediocre, facilmente dimenticabile. Purtroppo, questa impressione si allinea con quella che lasciano molti dei film originali Netflix, dando la sensazione che la piattaforma stia facendo della mediocrità il proprio focus produttivo — una scelta tutt’altro che positiva. Non è forse un caso che Netflix, almeno in Italia, stia perdendo terreno a favore di Prime Video, che negli ultimi mesi sembra offrire una proposta più variegata e qualitativamente solida.

Ritornando a Brick, il cineasta e sceneggiatore Philip Koch mette in scena un duplice gioco drammaturgico nel corso della narrazione: da un lato ci presenta una situazione familiare segnata dal lutto, raccontando nei primi minuti del film la condizione emotiva di Tim e Olivia, conferendo alla pellicola una componente introspettiva; dall’altro costruisce una narrazione dai toni thriller fantascientifici, legata alla misteriosa comparsa di un muro tecnologico che isola un gruppo di individui all’interno di un edificio.

La parte legata al muro — formato da mattoncini neri ad alta capacità magnetica — riesce a donare al film un senso di claustrofobia (non eccessivamente accentuato), una tensione drammaturgica costante e una curiosità narrativa che spinge lo spettatore a seguirne lo sviluppo fino alla fine, pur in assenza di veri colpi di scena. Anche i personaggi, come il pubblico, formulano nel corso della narrazione le più svariate ipotesi: si evocano riferimenti a Matrix, Squid Game ed Escape Room, ma anche teorie complottistiche che spaziano dalla creazione di un Nuovo Ordine Mondiale, all’ipotesi di una guerra ibrida, fino all’idea che il muro non sia un nemico da abbattere, bensì una barriera protettiva tecnologica contro un cataclisma globale o un’aria contaminata. Sono proprio queste speculazioni sulla natura del muro a spingere avanti la storia, in un lungometraggio che — per struttura e per l’uso della verticalità dello spazio — ricorda in modo evidente, pur con le dovute differenze di genere e tono, un altro original Netflix di grande successo: Il buco, pellicola spagnola del 2019 diretta da Galder Gaztelu-Urrutia.

In entrambi i casi, la verticalità non è soltanto una scelta scenografica, ma diventa un dispositivo narrativo e simbolico: in Il buco, il movimento dall’alto verso il basso scandisce la distribuzione del potere e della sopravvivenza, mentre in Brick la discesa attraverso gli appartamenti rappresenta un percorso di fuga, ma anche di scoperta e di confronto con l’altro. Il palazzo si trasforma in un organismo chiuso e stratificato, dove ogni piano è una tappa emotiva e relazionale, e dove la claustrofobia non è soltanto fisica, ma anche psicologica.

La verticalità diventa così una metafora del confinamento e della resistenza: un modo per raccontare l’isolamento e la tensione sociale attraverso l’architettura. Se nel film spagnolo il sistema è imposto e ineluttabile, in Brick la struttura è più ambigua, quasi organica, e il muro magnetico che sigilla gli spazi assume una funzione mutevole, oscillando tra barriera e catalizzatore. In entrambi i casi, però, lo spazio verticale è ciò che definisce il ritmo, la tensione e il senso profondo della narrazione, trasformando l’edificio in un vero e proprio teatro di conflitti, alleanze e rivelazioni.

La verticalità, dunque, unita al mistero legato al muro, dona alla vicenda un certo pathos e una curiosità narrativa efficace, nonostante una sceneggiatura che procede per stereotipi, priva di una scrittura dialogica e scenica realmente convincente. Le situazioni drammaturgiche e i personaggi proposti all’interno del lungometraggio risultano poco originali e decisamente superficiali, a partire dalla coppia di tossici, passando per la giovane con il nonno malato, fino all’ex poliziotto Yuri. Si tratta di figure macchiettistiche, delineate secondo archetipi abusati: appena compaiono sullo schermo, lo spettatore ne intuisce immediatamente natura e funzione narrativa, soprattutto nel caso di Yuri.

A una scrittura debole si affiancano delle prove attoriali mediocri, a partire dai protagonisti Matthias Schweighöfer e Ruby O. Fee, che non riescono a entrare emotivamente nei rispettivi ruoli, offrendo una performance finta e non coinvolgente per l’intera durata del film. Anche gli altri interpreti non brillano, ma dai due protagonisti ci si sarebbe aspettata una resa più profonda, considerando che la trama ruota attorno a una metafora fantascientifica della loro condizione interiore. Difatti, l’elemento intimistico — che risulta il punto più debole della narrazione per via della scrittura stereotipata — e quello fantascientifico-thriller coincidono tematicamente: entrambi rappresentano il blocco. Fin dalle prime scene, tramite una serie di flashback, il film ci racconta la condizione emotiva e familiare di Tim e Olivia, con al centro il blocco interiore di Tim, incapace di elaborare il lutto e di riabbracciare la propria vita. Tim, così come Olivia, è bloccato: non riesce a superare il trauma della perdita del figlio durante il parto, non lo accetta, non lo affronta e lo rimuove come se non fosse mai accaduto.

Il muro magnetico che imprigiona fisicamente i personaggi all’interno dell’edificio è la manifestazione visiva di questo blocco interiore. La ricerca di una via d’uscita diventa la metafora del bisogno di confronto: un percorso che costringe Tim e Olivia a parlarsi con sincerità, finalmente senza filtri. Purtroppo, però, la scrittura non riesce a rendere intenso questo conflitto emotivo, epicentro tematico e narrativo della drammaturgia, togliendo così forza alla narrazione e vanificando il potenziale simbolico del racconto.

In conclusione

Brick è un film che, pur partendo da un’idea intrigante e da un impianto visivo potenzialmente efficace, fallisce nel tradurre la premessa in un’esperienza narrativa coinvolgente. Il simbolismo, la verticalità dello spazio e la tensione da isolamento avrebbero potuto generare una riflessione emotiva e sociale profonda, ma restano superficiali a causa di una scrittura debole e interpretazioni poco incisive. È un film che incuriosisce, ma non lascia il segno — un esempio della distanza tra potenziale e realizzazione, emblematico di una certa produzione piatta da streaming.

Note positive

  • Premessa narrativa interessante e carica di mistero

Note negative

  • Scrittura debole e personaggi stereotipati
  • Dialoghi poco incisivi e situazioni prevedibili
  • Performance attoriali non coinvolgenti
  • Mancato sviluppo del potenziale emotivo della trama

L’occhio del cineasta è un progetto libero e indipendente: nessuno ci impone cosa scrivere o come farlo, ma sono i singoli recensori a scegliere cosa e come trattarlo. Crediamo in una critica cinematografica sincera, appassionata e approfondita, lontana da logiche commerciali. Se apprezzi il nostro modo di raccontare il Cinema, aiutaci a far crescere questo spazio: con una piccola donazione mensile od occasionale, in questo modo puoi entrare a far parte della nostra comunità di sostenitori e contribuire concretamente alla qualità dei contenuti che trovi sul sito e sui nostri canali. Sostienici e diventa anche tu parte de L’occhio del cineasta!

Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
2.3
Condividi su
Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.