
Bring Her Back – Torna da me
Titolo originale: Bring Her Back – Torna da me
Anno: 2025
Nazione: Australia
Genere: Horror, Drammatico
Casa di produzione: Causeway Films, A24, RackaRacka Studios, SAFC Studios, Salmira Productions
Distribuzione italiana: Eagle Pictures
Durata: 104 minuti
Regia: Danny Philippou, Michael Philippou
Sceneggiatura: Danny Philippou, Bill Hinzman
Fotografia: Aaron McLisky
Montaggio: Matthew Cannings
Musiche: Cornel Wilczek
Attori: Sally Hawkins, Billy Barratt, Sora Wong, Jonah Wren Phillips, Stephen Phillips, Sally-Anne Upton, Mischa Heywood, Olga Miller, Liam Damons, Alina Bellchambers
Trailer di “Bring Her Back – Torna da me”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Bring Her Back è il secondo lungometraggio scritto e diretto dai fratelli Danny e Michael Philippou, ex youtuber australiani noti per il canale RackaRacka, che con Talk To Me hanno fatto il loro sorprendente ingresso nel panorama horror internazionale. Prodotto da Causeway Films (The Babadook, The Nightingale) e distribuito da A24, il film è stato presentato in anteprima al SXSW 2025, ricevendo recensioni contrastanti ma grande attenzione mediatica. In Italia Bring Her Back è distribuito da Eagle Pictures e arriverà in sala il 30 luglio 2025.
Trama di “Bring Her Back – Torna da me”
Dopo aver scoperto il corpo senza vita del padre, Andy e sua sorella minore Piper vengono accolti da una nuova famiglia affidataria. A prendersi cura di loro è Laura, ex assistente sociale segnata dalla perdita della figlia, che vive in una casa isolata insieme a un altro ragazzo, Oliver, silenzioso e dall’aria enigmatica. Ma quello che all’apparenza sembra un nuovo inizio si trasforma presto in qualcosa di più oscuro. Mentre Piper attira le attenzioni morbose di Laura, Andy inizia a sospettare che dietro quella facciata premurosa si nasconda un rituale inquietante: un tentativo disperato di riportare indietro i morti. Intrappolati in un luogo che sfuma i confini tra dolore e follia, i due fratelli dovranno lottare non solo per la libertà, ma per la propria identità, in una casa dove niente è come sembra… e nessuno torna davvero uguale dopo essere stato “riportato indietro”.
Recensione di “Bring Her Back – Torna da me”
Dopo il terremoto mediatico e critico di Talk To Me, era lecito chiedersi quale sarebbe stato il prossimo passo dei fratelli Philippou. Il loro esordio nel lungometraggio aveva lasciato un’impronta netta: un horror folgorante capace di fondere mitologia urbana e immaginario digitale con una regia energica e un ritmo serrato, in perfetta sintonia con lo spirito di una generazione iperconnessa. Non era solo un film riuscito, ma un vero e proprio fenomeno, capace di rinnovare il linguaggio del genere parlando con intelligenza al presente. Con Bring Her Back, i due registi australiani scelgono però una strada diversa. Non cercano di replicare la formula vincente del debutto, né di inseguire il successo virale che li aveva lanciati. Al contrario, compiono un gesto coraggioso: rallentano il passo, si addentrano in territori più intimi e disturbanti, e firmano un’opera che rinuncia all’immediatezza per cercare una profondità più sottile. Il nuovo film abbandona il brivido della possessione come gioco collettivo per esplorare il dolore come rituale privato, costruendo un horror psicologico che parla di lutto, solitudine e manipolazione affettiva. Il film si prende il suo tempo e affonda lentamente nel disagio, costruendo una tensione fatta di sguardi, silenzi e piccole crepe. Più cupo, più stratificato e senza dubbio più ambizioso, segna un’evoluzione evidente nello stile e nella scrittura dei Philippou, pur portandosi dietro, in certi momenti, il peso di un confronto inevitabile con l’impatto più immediato e originale del loro primo lavoro.
È chiaro fin da subito che ci troviamo di fronte a un’opera più consapevole. Le atmosfere sono dilatate, le scelte visive più misurate, i momenti di tensione costruiti con lentezza e precisione. A colpire non è tanto l’originalità dell’idea, che in Talk To Me brillava con una semplicità destabilizzante, quanto il modo in cui viene gestito il dolore, la perdita e il bisogno ossessivo di riportare indietro chi se n’è andato. Qui non c’è più spazio per rituali da party adolescenziali: la possessione diventa intima, sommessa, filtrata attraverso dinamiche familiari disturbanti. La storia ruota attorno a una madre distrutta, pronta a oltrepassare qualsiasi limite per rivedere la figlia defunta. L’elemento soprannaturale è filtrato da un’estetica lo-fi che richiama l’analogico: le VHS rituali, oggetti tanto affascinanti quanto poco esplorati nel film, sono uno dei punti deboli della narrazione. Quel potenziale simbolico, con la memoria registrata, il corpo trasformato in immagine, rimane solo in superficie. Sarebbe stato interessante vedere i Philippou interrogarsi di più sul legame tra il mezzo video e il concetto di ritorno, tra il supporto fisico e il corpo dell’altro. Invece le cassette restano un espediente narrativo funzionale, poco sfruttato nei suoi significati più profondi.
Questa scelta lascia un senso di incompletezza. Il rituale si presenta come un meccanismo quasi misterioso, ma la sua forza evocativa non si traduce mai in una mitologia realmente costruita o approfondita. La mancanza di una cornice narrativa solida intorno a questo elemento sacrale priva la trama di una vera tensione interna, limitando l’impatto emotivo e concettuale che un simile simbolo avrebbe potuto generare. Si ripete invece il tema del ritorno dalla morte, che rappresenta il cuore pulsante sia di Bring Her Back sia del loro esordio, confermando come i registi siano interessati a esplorare quell’area sottile dove il confine tra vita e morte si fa ambiguo e incerto. Nel loro esordio però, quel ritorno era veicolato da un oggetto, che dava forma a un contatto diretto, quasi sfrenato, con l’aldilà. L’esperienza risultava immediata, elettrizzante e viscerale, portando lo spettatore a vivere un’esplosione di tensione e orrore puro, un rituale che sfuggiva a ogni mediazione. Questa riflessione sul ritorno alla vita, tanto potente quanto fragile, lega i due film in un dialogo aperto, mostrando il continuo interrogarsi sul peso di ciò che resta quando il confine tra la vita e la morte viene oltrepassato, ma anche su quanto quel ritorno possa trasformarsi in un’illusione inquietante.
In conclusione
Bring Her Back prende tempo, costruisce lentamente, a tratti rischia anche di perdersi in passaggi più esplicativi del necessario. Ma nonostante qualche momento meno efficace, riesce comunque a colpire per la capacità di insinuare un senso di disagio crescente, che parte dal quotidiano per scivolare progressivamente nel delirio. Il cast, in questo, regge bene. Sally Hawkins è magnetica, inquietante senza mai dover esagerare. Il suo personaggio vive in un limbo tra il conforto e l’abuso emotivo, con una delicatezza sinistra che si rivela piano piano. Accanto a lei, Billy Barratt e Sora Wong danno corpo ai due fratelli coinvolti nel vortice della madre: uno protettivo e vulnerabile, l’altra spaesata e inquieta, con uno sguardo che coglie solo frammenti, ma che diventa simbolicamente più lucido di tutti gli altri.
Nel complesso, Bring Her Back è un passo avanti per i Philippou. Non ha l’impatto visivo e concettuale del loro debutto, ma guadagna in profondità e coerenza tematica. È un horror che lavora più sul non detto, sulla tensione sottile, sul senso di colpa e sulle dinamiche familiari distorte, piuttosto che su un sistema mitologico facilmente replicabile. Forse farà meno rumore, ma lascerà sicuramente un’impressione più duratura, più inquietante, più umana.
Note positive
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Note negative
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Colonna sonora e sonoro |
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