L’impostore (1997). Il film che ambisce a essere un cult del cinema

Recensione, trama e cast di "L'impostore" (titolo originale: Deceiver). Un thriller psicologico del 1997 che segue un uomo sospettato di omicidio

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L’impostore - Giallo - Grafica de L'occhio del cineasta

L’impostore

Titolo originale: Deceiver

Anno: 1997

Nazione: Stati Uniti d’America

Genere: Giallo, Thriller

Casa di produzione: American World Pictures

Distribuzione italiana: Filmauro

Durata: 106 minuti

Regia: Jonas Pate, Josh Pate

Sceneggiatura: Jonas Pate, Josh Pate

Fotografia: Walt Lloyd

Montaggio: Dorian Harris

Musiche: Chris Thomas

Attori: Tim Roth, Chris Penn, Michael Rooker, Renée Zellweger

Trailer de L’impostore

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Presentato fuori concorso il 31 agosto 1997 alla 54ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e successivamente al Sitges Film Festival nell’ottobre 1997, per poi essere distribuito nei cinema spagnoli il 12 novembre 1997, in quelli americani il 15 maggio 1998 e in quelli italiani dal 19 febbraio 1999, “L’impostore” (titolo originale: “Deceiver”, lett. “L’ingannatore”) è la seconda opera dei fratelli Pate, Jonas e Josh. I due avevano già collaborato insieme nella realizzazione della loro opera prima, “The Grave” del 1996, un film di genere thriller come “Deceiver”, con cui hanno ottenuto il premio per la miglior fotografia e la miglior sceneggiatura allo Stockholm Film Festival del 1997, mentre al Cognac Police Film Festival del 1998 sono stati premiati con il premio speciale della giuria. I fratelli Pate, per la realizzazione del film, hanno utilizzato un cast di prim’ordine: Tim Roth (“Le iene“, 1992; “Pulp Fiction“, 1994), Chris Penn (“America oggi”, 1993; “Fratelli”, 1996) e Renée Zellweger (“Non aprite quella porta IV”, “Jerry Maguire“, 1996), attori di grande spessore che nel corso degli anni hanno ottenuto un grande successo. Tuttavia, come spesso accade, gli attori non bastano per realizzare un grande film.

Trama de L’impostore

James Wayland (Tim Roth), futuro erede di una compagnia tessile con problemi epilettici dovuti a un problema al lobo frontale, si ritrova sotto indagine per l’omicidio di Elizabeth (Renée Zellweger), una prostituta brutalmente uccisa la notte precedente. L’assassino non solo ha tolto la vita alla donna, ma ha anche tagliato il suo corpo in due parti, collocandole in due valigie poi abbandonate in città. Le valigie sono state ritrovate e aperte la mattina seguente. All’interno di esse è stato trovato un biglietto con il numero di telefono di James Wayland, che diventa immediatamente l’unico sospettato dell’omicidio. I due detective incaricati delle indagini, l’esperto Edward Kennesaw (Michael Rooker) e il meno smaliziato assistente Phillip Braxton (Chris Penn), ottenute le prime dichiarazioni dal presunto colpevole, lo sottopongono alla macchina della verità per verificare la sua sincerità. I tre, all’interno di una sala interrogatori, danno vita a uno scontro verbale intenso, teso a svelare la verità e a identificare il vero colpevole, in un gioco di specchi e capovolgimenti di ruolo, dove distinguere tra bugie e verità risulta alquanto complicato.

Recensione de L’impostore

I fratelli Pate dimostrano di essere più interessati alla resa visiva che a quella sceneggiativa, possedendo un’abilità registica e cinematografica fuori dal comune. Questa abilità autoriale è sfruttata ottimamente per immergere il pubblico nella vicenda, attraverso inquadrature sempre particolari e originali che riescono a tenerci incollati allo schermo. L’inizio stesso della pellicola dimostra come essa punti tutto sulla regia e su una vena narrativa originale e non didascalica, dove le informazioni vengo trasmessa attraverso un attenta scrittura di dialogica. La vicenda si apre con un gioco registico alquanto interessante e accattivante. Lo spettatore viene introdotto nella storia attraverso l’uso di due false soggettive realizzate con un piano sequenza, alternate poi grazie al montaggio, unite da una musica inquietante e romantica al pianoforte e dalla voce fuori campo di un uomo che racconta gli eventi di quella serata (la voce è quella di Tim Roth). In entrambi i piani sequenza seguiamo la vicenda dal punto di vista di James Wayland: nel presente, viene scortato dal detective Phillip Braxton nella sala d’interrogatorio per il test della macchina della verità; nella seconda falsa soggettiva, ci troviamo in un mondo tra realtà e irrealtà, rappresentando la versione testimoniata da Wayland, ambientata in un parco notturno e riferendosi all’incontro con la prostituta uccisa, inizialmente mostrata attraverso un’ombra sensuale che si riflette su un muro, dando alla vicenda un aurea di mistero. Attraverso questo duplice gioco registico ci vengono presentati in maniera originale i personaggi: i due detective, la vittima e la versione di Wayland, che viene mostrato nel momento in cui la soggettiva si interrompe e, attraverso il piano sequenza, vediamo prima la fisionomia del personaggio e poi il suo volto.

Escludendo qualche scena utile per approfondire i personaggi nel loro contesto familiare e quotidiano o per indagare la psicologia di Wayland, la pellicola, che copre la durata di qualche giorno, si sviluppa quasi completamente all’interno della sala degli interrogatori. I lunghi dialoghi verbosi sono spezzati e inframmezzati da flashback nella mente distorta e nel passato di Wayland, connessi al suo rapporto con la prostituta Elizabeth. Questo personaggio, ottimamente interpretato da Renée Zellweger, stringe un forte legame di amicizia con James, un rapporto che non è chiaro se esista solo nella mente di Wayland o se sia effettivamente reale. Questo stato di confusione tra realtà, ricordo e allucinazione è un elemento predominante della pellicola. Ad esempio, il vestito di Elizabeth cambia spesso tonalità da scena a scena, passando da nero a bianco e viceversa. Il senso di confusione è accentuato dall’assenza di voci esterne a Wayland. Lui racconta la sua verità, e i detective ascoltano le sue versioni senza sentire altre testimonianze, come quelle dei genitori di Wayland, che potrebbero far luce sulla veridicità del rapporto tra Elizabeth e James. La pellicola gioca con la confusione, mescolando allucinazione e realtà. In questo senso, le scelte di regia e le scelte riferite al posizionamento della macchina da presa risultano potenti e intenzionali, mostrandoci i tre personaggi attraverso svariate angolature sempre nuove e originali. Basti pensare al piano sequenza inclinato a fine film, che non ha solo un valore estetico ma anche artistico, dove i volti si confondono come la natura del vero colpevole. La domanda che lo spettatore dovrebbe porsi nel corso del film dunque è: chi è il vero impostore? Chi è la persona più abile a dire bugie?

Accanto alla regia troviamo un notevole lavoro di Bill Butler (“Grease”, “Rocky II” e “Rocky III”) come direttore della fotografia. Butler dona alla pellicola un’atmosfera da film noir, mostrando la volontà di puntare non solo all’intrattenimento ma anche al dramma, mostrando il vero obiettivo del film, ovvero quello di diventare un vero cult di genere alla “Schegge di paura” del 1996. La fotografia è uno degli elementi di forza del film, con luci inizialmente delicate che diventano progressivamente più nette e dominate dal nero, creando giochi di luce in penombra che rendono i volti e le ambientazioni interne alquanto oscure. Questo conferisce un senso di follia e perdizione alla vicenda.

A creare un maggiore senso di dramma e di forza espressionista, oltre alla regia e alla fotografia, contribuiscono anche le interpretazioni degli attori. Spicca l’incredibile lavoro di Tim Roth nel personificare il misterioso aristocratico bugiardo, affetto da convulsioni che distorcono la sua psiche, tramutandolo in un mostro. Tim Roth riesce a entrare nel personaggio con incredibile forza autoriale, donando spessore e tridimensionalità al suo ruolo. Le scene in cui mostra i suoi attacchi epilettici sono straordinarie e suscitano emozioni contrastanti negli spettatori, arricchendo la narrazione.

In tutto ciò, abbiamo una sceneggiatura che funziona abilmente per due terzi della pellicola, perdendosi, ahimè, nell’ultimo atto narrativo, con una conclusione alquanto confusionaria fatta di continui rovesciamenti e capovolgimenti della situazione. I ruoli dei personaggi si confondono e la loro vera natura emerge entro un gioco prettamente mentale a cui i detective sottopongono il presunto colpevole James Wayland, un ubriacone bugiardo affetto da disturbi psicologici dovuti a un problema al lobo frontale che gli causa convulsioni e visioni. Quest’ultimo, a sua volta, sottopone i due detective a un confronto aperto, soprattutto nel finale, giocando con loro, sfruttando le loro emozioni e i loro trascorsi familiari a suo vantaggio. I due detective si ritrovano, più volte, in balia di questo rampollo disoccupato dell’alta società, che si dimostra essere un detective molto più astuto di loro.

Attraverso un finale complicato, che dovrebbe mettere tutti i pezzi del puzzle a posto, si attua uno scontro potente tra l’esperto Edward Kennesaw e Wayland. In questo scontro avviene un repentino cambio di ruoli, un cambiamento, scioccate e impensabile, nella vicenda che non convince pienamente, pur risultando interessante come escamotage narrativo. Lo spettatore si ritrova confuso e perplesso, alla ricerca del vero motivo dell’omicidio e del vero colpevole, una risposta che forse non abbiamo del tutto, anche se la scena finale della pellicola, ambientata un anno dopo i fatti narrati, può darci la giusta chiave di lettura. Le spiegazioni possibili sono due (qui ci sarà uno spoiler):

  1. L’assassino è James Wayland, che ha architettato tutto un intrigo per confondere continuamente i detective e lo spettatore. In questo caso, il movente è la semplice follia.
  2. L’assassino è Edward Kennesaw. Il detective, con problemi di rapporto matrimoniale dovuti al tradimento della moglie, è caduto in una profonda crisi psicologica tanto da costringere Elizabeth, su pagamento, a fingere di essere sua moglie, fino a stuprarla. In un moto di pazzia e confusione mentale, scambia Elizabeth per sua moglie e la uccide, mosso da gelosia e rabbia nei confronti della moglie traditrice. Forse è proprio per tacere la sua colpevolezza che Edward ha indagato sul crimine senza informare il suo collega di aver conosciuto la donna morta, depistando le indagini.

A mio avviso, la probabilità che l’omicida sia Wayland è più congrua con gli eventi narrativi, come si evince nel finale dove sembra che l’uomo sia pronto a compiere un omicidio ancora una volta. Vedendo in quell’uomo bugiardo e manipolatore, possiamo concludere che il vero killer sia lui.

In conclusione

“L’impostore” (1997) si distingue per un’introduzione registica accattivante e una narrazione che gioca con la realtà e l’illusione, mantenendo lo spettatore costantemente coinvolto. La regia di Mark Illsley, unita alla fotografia espressiva di Bill Butler, crea un’atmosfera noir che sottolinea il dramma psicologico dei personaggi. Le interpretazioni di Tim Roth e Renée Zellweger aggiungono ulteriore profondità alla trama, rendendo i loro personaggi memorabili. Tuttavia, la complessità del finale e l’ambiguità delle risposte possono lasciare lo spettatore perplesso, pur evidenziando l’intento del film di confondere e sfidare il pubblico fino alla fine.

Note positive

  • Regia originale: Uso di piani sequenza e false soggettive che introducono efficacemente i personaggi e la storia.
  • Fotografia: Atmosfera noir creata con luci e ombre, aumentando la tensione drammatica.
  • Interpretazioni: Tim Roth e Renée Zellweger offrono performance potenti e credibili.
  • Profondità psicologica: Il film esplora abilmente la mente distorta del protagonista e il suo rapporto ambiguo con la realtà.
  • Narrazione coinvolgente: La trama mantiene alta la suspense e l’attenzione dello spettatore

Note negative

  • Titolo rivelatore: “L’impostore”, ma anche i titolo originale, risulta troppo didascalico e svela prematuramente la trama.
  • Confusione nel finale: La complessità e i rovesciamenti dell’ultimo atto possono risultare eccessivi e difficili da seguire.
  • Assenza di testimonianze esterne: Mancanza di voci esterne che avrebbero potuto chiarire il rapporto tra James e Elizabeth.
  • Scelte di sceneggiatura: Alcune decisioni narrative nel finale possono apparire forzate e non completamente convincenti.
  • Equilibrio narrativo: La sceneggiatura funziona bene per due terzi del film, ma si perde nell’ultimo atto.
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.