The Believer (2001): la storia di uno sradicamento

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Trailer in italiano

Trama di The Believer

Tratta da un opera teatrale scritta dallo sceneggiatore, il film tratta eventi della vita di Danny Balint, colui che da studente di religione ebraica, si è trasformato in un astro nascente del movimento politico neofascista.

Prendi le più grandi menti ebree: Marx, Freud, Einstein. Che cosa ci hanno dato? Il comunismo, la sessualità infantile e la bomba atomica!

Recensione

La storia del protagonista in The Believer è la storia di un “Credente” che arriva a scoprirsi tale dopo aver nuotato nel mare con la sola forza dei piedi, senza l’ausilio di mani. Di una “coscienza infelice” hegeliana che si rivela libera e assoluta solo dopo aver attraversato  masochistiche asperità. Sono una sparuta minoranza i film che riescono a non tralignare un accadimento di per sé sui generis in un prodotto che, al contrario di rendere il pubblico pago dei dubbi instillati nella sua mente, lo polarizzano e lo fanatizzano, sentenziando con un “sì” o con un “no”. The Believer rientra in quella Candida Rosa di film sopra menzionati, sollevatore di dubbi, e rivelatore di risposte in sintomatica osmosi. Ma partiamo dal principio: Henry Bean, regista del film, si lascia trasportare, a metà tra il realistico e l’universalizzatile tramite gli intermezzi narrativi e cinematografici, dalla vicenda realmente verificatasi di Daniel Burros (nel film soprannominato Danny), militante nell’American Nazi Party, nonostante le sue origini ebraiche, che nel 1965 culminò in suicidio dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo che svelava le sue radici ebraiche ad opera del giornalista McCandlish Phillips.  Il regista porta quindi in scena la storia di uno sradicamento, ma non uno perpetrato da un popolo nei confronti di un altro, né di una persona che, prestando fede a una presunta dottrina di purezza morale o biologica, si industria per estirpare l’estraneo a quella purezza, colui che non deve contaminare l’erba del proprio incontaminato orticello con la sua alterità obbrobriosa. Cosa succede se è uno stesso sradicato a voler sradicare il popolo a cui appartiene?. 

Scrive Simone Weil, filosofa francese e anch’ella di origini ebraiche  all’interno di una sua opera incompiuta, Venise sauvée, che tra le malattie delle società umane “lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa […] Perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte, o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora o lo sono solo in parte”. La sentenza della filosofa è perentoria: chi è sradicato, sradica, e Danny è l’esecutore materiale e araldo di questa tendenza. E perché Danny è uno sradicato? O meglio, un auto – sradicato? Il ragazzo, fin dall’infanzia, si mostra precocemente intelligente e poco ossequioso dei diktat ebraici, in modo preminente durante le lezioni di teologia; è proprio durante una di queste che si avrà lo scisma irreversibile da quella comunità da sempre odiata e amata: dopo un acceso scontro con un professore, scappa dalla lezione per non farvi più ritorno.

Ryan Gosling in The Believer
Ryan Gosling in The Believer

Ed ecco che inizia il viaggio della coscienza infelice che deve negare se stessa per sbrigliarsi dalle pastoie che la incatenano: Danny diviene uno skinhead, con tatuaggi inneggianti al nazismo e non si trattiene dall’usare la violenza come arma intimidatoria e coercitiva. Eppure non è come gli altri skinheads. Accattivante, colto, lucido e articolato nella deprecazione degli ebrei e portavoce di una violenza verbale antisemita che non sfocia mai nel complottismo e in facilonerie retoriche, si distingue per la profonda erudizione che nutre in materia ebraica. “Se odi qualcosa, la devi studiare per capire perché la odi“. Eichmann studiava la Torah, il Talmud, studiava tutto; lui odiava gli ebrei” afferma in una scena.

Ma il suo odio è incostante tanto quanto il tellurico attaccamento alle tradizioni e ai principi ebraici. Tra i ricordi di quelle lezioni di teologia e visioni oniriche in cui immagina di essere un soldato tedesco che trucida un bambino ebreo, è solo attraverso questo lacerante parossismo che germina nel suo animo l’incapacità di sbarazzarsi, di affrancarsi da quel “Nulla senza fine”, come definisce egli stesso Dio. La coscienza sta prendendo consapevolezza di essere essa stessa lo Spirito, l’Assoluto che è diventato Soggetto, Spirito e Infinito in un trittico favolosamente combaciante. 

Durante una conferenza dal nome Christian Atheism il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha affermato: «Quando sono del tutto abbandonato da Dio, io mi identifico con Cristo che si trovò esattamente nella stessa posizione con il famoso “Padre, Padre, mi hai abbandonato?” […]. Bisogna vedere in una maniera molto hegeliana il modo in cui superiamo la nostra separazione con Dio: non riunendoci con Dio, ma comprendendo che questa separazione è pure la separazione di Dio da se stesso. A quel punto, noi siamo divini». Egli continua dicendo che solo nel cristianesimo Dio stesso per un attimo è ateo, solo nel cristianesimo Dio abbandona se stesso. Bisogna abbandonare completamente la prospettiva della teodicea, per cui il male attuale porta a beni maggiori nel futuro, e che Dio alla fine verrà in nostro soccorso. No, al contrario: è Dio che ha bisogno del nostro aiuto, di cui ci rende capaci donando la libertà più radicale. Mentre in una sua opera, Meno di niente ha scritto quanto segue: ”Per Hegel in quanto filosofo cristiano, il problema non è “come superare la scissione”, poiché la scissione significa la soggettività, il divario della negatività, e questa negatività non è un problema ma una soluzione, essa è già in se stessa divina. Il divino non è la Sostanza/Unità abissale, onniabbracciante dietro la moltitudine delle apparenze; il divino è il potere negativo che fa a pezzi l’unità organica. La “morte” di Cristo non è superata, ma elevata nella negatività dello Spirito”. 

Benché Žižek faccia riferimento esclusivamente al cristianesimo sul piano religioso, si può trasporre questa intrigante teoria su un livello morale e sul rapporto intimo con il divino, cosicché Danny diviene la personificazione più qualificante di questa “negatività divina”. Egli, alla fine del film, giungerà a ri-credere e ad accettarsi come inestricabilmente appartenente a quel popolo sradicato, colui che, proprio come Gesù divenuto ateo sulla croce, attraverso l’abnegazione di sé in modo recisamente totalizzante, si è inoltrato dove nessuno ha osato spingersi e dove nessuno ha creduto potesse esserci qualcosa. “Danny, fermati, dove pensi di andare? Non lo sai? Non c’è niente lassù” è la laconica frase che nell’ultima scena rimbomba come un martello fracassante sul cranio dalla bocca del professore. Ma non sul cranio di Danny, che continua a salire con un moto catatonico su una scala che non si sa dove conduca. Di certo per Danny non da nessuna parte.

Giunti alla chiosa di questa lettura, potrebbero germogliare due domande legittime. La prima: perché il film colpisce? Soffermandoci in prima istanza sugli effetti meramente artistici, in The Believer esordisce un Ryan Gosling appena ventunenne con una performance poliedrica che ingloba e incanala al suo interno moti psicologici al limite della sofferenza taciuta, ingabbiata e sfociante in scene sanguinolente che ravvisano la crudezza di American History X (i bagni di sangue che si susseguono lentamente come il procedere lento della morte), e lo smottamento che viene costantemente tradito dallo sguardo di Gosling che rimanda a un passato malinconicamente sentito e che infiacchisce i propositi di vendetta verso la sua comunità di origine; fiero di se stesso con la languidezza che il corpo emana, in realtà la sua mente brancola nel buio e gioca a cercarsi con una lampada soffusa, ma alimentata di volta in volta grazie al climax che Gosling riesce a restituire. Per di più, la musica che rimanda a un rantolo di una lamentatrice funebre, le sequenze che evocano il suo passato, il presente e le evocazioni immaginifiche, i dialoghi e i monologhi che mettono in discussione i pregiudizi ebraici e anti – ebraici, si intrecciano fino a inanellarsi in un vortice che tiene incatenato lo spettatore, il quale costruisce e smantella dubbi, certezze e prese di posizione da un momento all’istante successivo. E questo ci porta, en passant, alla seconda domanda: perché guardarlo? Per lo stesso motivo per cui Suor Maria ne La Grande Bellezza, alla domanda di Jep sul perché ci cibasse solo di radici, rispose:Perché le radici sono importanti. Jep, similmente a Danny e a modo suo in modalità differenti, soffre perché le sue radici proprio non sa dove cercarle, non riesce a trovarle, non le trova nelle tasche, né nel cassetto di casa sua, né negli altri, né nella sua vita. Eppure, alla fine del film, quando ha perso tutto quello che gli infondeva un baluginio di speranza, fruga dentro se stesso e le radici (chissà quali?) poi le trova. E anche Danny, in modo altrettanto singolare, si riappropria delle proprie radici e sa finalmente che scelta cogliere sine ira et studio.

Ryan Gosling in una scena

Note positive

  • Performance di Ryan Gosling
  • Regia con un messaggio provocatorio che accende la lampadina nel cervello del pubblico
  • Trivellamento nelle radici e nel passato di noi tutti che ci rammemora quanto essi siano imprescindibili per una riflessione su chi siamo nel presente e su chi saremo nel futuro

Note negative

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