Intervista di Pierfrancesco Favino sul L’ultima notte di Amore (2023)

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Il 9 marzo 2023 esce in Italia, dopo essere stato presentato fuori concorso al Festival di Berlino, il film L’ultima notte di Amore per la regia di Andrea di Stefano che vede Favino nel ruolo del protagonista Franco Amore, un poliziotto che sta per andare in pensione e che si ritroverà in una situazione alquanto imprevedibile.

Come è nata la sua adesione a questo film?

Conosco da tempo Andrea Di Stefano perché avevo recitato in passato nel film “Il principe di Homburg” di Marco Bellocchio, di cui era stato il protagonista e avevo poi seguito nel tempo il suo percorso artistico, prima come attore e poi come regista. In questa occasione Andrea mi ha contattato mandandomi una sua sceneggiatura, che mi aveva molto colpito per la qualità della scrittura e perché mentre lo leggevo mi coinvolgeva tanto emotivamente e mi appassionava, ero ansioso di vedere come andava a finire. Il modo di vedere il cinema di Andrea mi piace molto, è simile al mio, lo spettatore è sempre messo in primo piano, i film che dirige sono di genere e anche di intrattenimento “alto” e, per quanto riguarda “L’ultima Notte di Amore”, mi è piaciuto il fatto che fosse un noir vero e proprio, un “polar”, un genere che forse noi abbiamo lasciato negli ultimi anni nelle mani di altre cinematografie. Ero felice che nel cinema italiano si potesse tornare a fare un tipo di storie che non si facevano da tempo. Era un film che avrei voluto vedere da spettatore – nelle scelte che compio questa è sempre una condizione essenziale – e mi è piaciuta l’ambizione di Andrea, si trattava di un film che doveva essere ambizioso anche da un punto di vista produttivo altrimenti diventava un tentativo nostrano di copiare gli americani. La sfida era quella di verificare se un genere che siamo abituati a vedere con altri volti e altre uniformi potesse tornare a essere credibile rispetto alla nostra cultura e alla nostra realtà, e credo che questa scommessa alla fine sia stata completamente vinta.

Che cosa le ha interessato di più di questo progetto e del suo personaggio?

Il fatto che il protagonista Franco Amore sia una persona comune, uno di quei poliziotti che possiamo incontrare nei commissariati quando andiamo a rinnovare il passaporto. Non ha niente del supereroe, non è un tipo aggressivo né un esaltato, è un uomo normale che si ritrova in una condizione eccezionale, un uomo onesto, che per tutta la sua esistenza è stato fedele a se stesso, al suo modo di vivere la professione e anche la vita, è ligio alle regole e per questa sua correttezza di fondo viene spesso preso in giro e considerato un “fessacchiotto”. Quando si lascia convincere a fare uno strappo alla regola in qualche modo tradisce se stesso ed è costretto a trovare il modo di uscire dalla valanga che gli si abbatte addosso, ma non ha gli strumenti per farlo, non è abituato a questo. Tutti noi a volte siamo insieme sia orgogliosi delle nostre scelte che frustrati rispetto a quello che gli altri pensano di noi: troppo spesso in Italia la furbizia viene scambiata per intelligenza e considerata una dote, un valore, ma Franco ha sempre fatto il suo dovere, forse racconta a se stesso qualche bugia, ma il suo unico desiderio è quello mantenere l’immagine di sé in cui crede e in cui si riconosce

Che tipo di approccio c’è stato da parte sua a questo film?

Andrea Di Stefano è un regista molto serio e preciso, non solo nella tecnica, ma anche nella preparazione e nella ricerca delle fonti. Prima delle riprese ha compiuto un importante lavoro di documentazione e in questa occasione ho voluto incontrare da vicino diverse persone che lavorano o hanno lavorato nelle forze dell’ordine: è difficile comprendere dall’esterno quel contesto così particolare senza entrare in contatto con quella realtà e con le vite che conducono poliziotti e carabinieri. Anche se la nostra è una storia di fantasia siamo stati messi in condizione dalla produzione e dalla regia di arrivare sul set pronti e informati. Quando mi trovo su un set non suggerisco mai a un regista il modo di girare una scena, ma cerco sempre di esternare nella fase di lettura di un testo il mio punto di vista sulle motivazioni del personaggio o sui momenti chiave del racconto e con Andrea c’è stato subito un dialogo naturale reciproco, aperto e costruttivo. A questo film ho sempre creduto moltissimo, fin dall’inizio, inoltre cerco sempre di mettermi nei panni del pubblico e, così come piace a me vedere qualcosa di diverso e insolito, mi piace offrire questa possibilità anche agli spettatori. Di Andrea Di Stefano mi piace molto l’ambizione, in Italia spesso pensiamo di giocare un campionato facendo attenzione solo a restare “in zona salvezza”, ma se siamo noi stessi a pensare di valere poco perchè il pubblico dovrebbe pensare che il nostro cinema vale? Noi possiamo benissimo competere, con ragioni fondate, in campo internazionale, ma è necessario fare bene le cose, la gente sta tornando a scegliere quello che vuole vedere, fortunatamente, e noi non dobbiamo deluderla.

Strada facendo tra me e Di Stefano c’ è stato un grande ascolto reciproco ed è nata una salda complicità, abbiamo avuto un confronto intenso e continuo prima e durante le riprese, abbiamo studiato insieme il copione, ci siamo scambiati costantemente opinioni: dato che quando sei sul set c’è meno tempo per provare noi lo abbiamo fatto a lungo nelle settimane che hanno preceduto il primo ciak. Poi può succedere che ci siano anche momenti di tensione e difficoltà ma io ho creduto e credo moltissimo alla storia che lui ha voluto raccontare e mi sono sentito il primo “cavaliere” di Andrea. Quando sei il protagonista di un film hai la giusta responsabilità di portare acqua al mulino del tuo regista, a maggior ragione se si tratta di una persona che stimi e se sostieni la sua ambizione perché sta facendo un lavoro particolare

Una milano notturna in L'ultima notte di Amore
Una Milano notturna in L’ultima notte di Amore

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Ricorda qualche momento della lavorazione più difficile o più impegnativo di altri?

Il cuore del film è rappresentato dalle sequenze ambientate di notte su una tangenziale in cui è avvenuta una sparatoria mortale e dal fatto di avere avuto l’opportunità di girare con la pellicola in 35mm. Tra le auto che sfrecciavano, ritrovare quelle dinamiche per cui dovevi ottimizzare i tempi tra l'”azione!” e lo “stop!” per me ha significato tornare a certi momenti particolari di performance che non vedevo da anni. Il raggio d’azione del cuore centrale del film era circoscritto in oltre un kilometro, col campo visivo adeguatamente organizzato per le riprese, avevo visto qualcosa di simile soltanto quando ho recitato sui set americani, si tratta di una parte centrale in cui i movimenti di pensiero e psicologici del protagonista erano estremamente delicati e tenere sempre il filo di quel puzzle ha richiesto per me un forte impegno da un punto di vista mentale, sempre accompagnato però da un’adesione totale ed entusiasta al progetto, ai personaggi e alla storia.

Quali sono secondo lei le qualità principali di Andrea Di Stefano?

Andrea ha una grande capacità nel capire quali sono le storie che possono appassionare e si trova a proprio agio anche all’interno di produzioni complesse e questo ha a che fare con la nitidezza della sua visione. Quello che piace a me di lui è che per quanto ogni tanto possa realizzare certe inquadrature virtuosistiche, non c’ è mai in lui nessun autocompiacimento, lo fa solo per coinvolgere il pubblico e questo è qualcosa di importante e raro. Ha un grande senso della storia, capisce che cosa ti può appassionare, ha grande capacità di scrivere anche attraverso le immagini, non gira mai un’inquadratura fine a se stessa ma lo fa sempre per dire qualcosa in più su quello che sta accadendo. Poi ha un forte gusto per il suono, ha padronanza del set e del campo d’azione. Penso ad esempio alla sua scelta di girare in pellicola e non in digitale: quella notte in cui si svolge il film fotografata in quel modo particolare è la notte di Franco, rappresenta la notte che lui si porta dentro. Si parla di una vita che può andare in una direzione o in un’altra e quei colori, quelle luci, quell’intensità non sono mai un vezzo, ma sono funzionali, rappresentano un preciso segno emotivo.

Quanto hanno inciso secondo lei i due film internazionali diretti da Di Stefano nella sua padronanza del set?

Sicuramente alcuni registi che hanno compiuto un percorso all’estero possono contare su una consapevolezza tecnica più ampia, ma a me è capitato di recitare con registi che non hanno mai lasciato l’Italia che hanno un’estrema padronanza del loro modo di vedere, dovemmo smitizzare alcuni luoghi comuni. Se ci guardiamo intorno negli ultimi tempi vediamo tanti ottimi film che provengono non solo dagli Stati Uniti, ma da tutto il mondo, Italia inclusa. Se siamo noi stessi per primi a pensarci in una condizione secondaria saremo inevitabilmente fermi in quella condizione secondaria. Non esiste un solo cinema o un solo modo di intrattenere le persone, credo che sia evidente che il cinema che arriva oggi dal resto del mondo abbia una maggiore capacità di saper intrattenere, noi magari non possiamo usare tutti quegli effetti speciali e tutto quel denaro di cui dispongono i film americani, ma non è detto che questa loro opportunità in più sia sempre garanzia di qualità, alla fine la differenza la dà la storia che racconti.

Che cosa ricorda in particolare del periodo delle riprese?

Milano è una città molto rappresentativa che oggi incarna un’eccellenza e penso che questa città vista di notte, anche nei suoi meandri insoliti, incarni una location perfetta per la nostra storia: è fotografata in maniera molto particolare con la sua architettura, il carattere e la forza delle strade, quel tipo di realtà così urbana e insieme così maestosa, è come se la città fosse un personaggio che osserva in silenzio la storia che raccontiamo. I milanesi che vedranno il film riconosceranno qualcosa che appartiene a loro profondamente, una speciale atmosfera che non era facile da tradurre in immagini. Andrea Di Stefano ci è riuscito, nel suo film si sente che c’è un mondo intorno che va oltre e che ti chiede sempre di essere all’altezza, si vede come un uomo che fatica ad arrivare a fine del mese con quello che guadagna sia fatalmente condizionato dai segnali più vistosi del benessere che lo spingono a inseguirli. Nel film c’è l’idea di una persona che dal Sud decide di andare a vivere in una metropoli che ti chiede di essere sempre all’altezza e ti fa vedere quali potrebbero essere i modi per migliorare la tua vita: è evidente che certe tentazioni possono sollecitare qualcuno ad andare oltre. Tutto questo è vero e realistico per tante realtà, ma l’immagine di Milano è quella di una città che vuole andare avanti, dinamica, volenterosa, operosa, una città in cui il successo è una pedina importante da giocare. Quella tentazione di quest’uomo di dare una svolta alla sua vita e a quella delle persone che ama è universale, ma in una città del genere appare più che credibile e pertinente, quella valvola che fa scoppiare la nostra storia è ampiamente facilitata.

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