Jackie Brown (1997): L’ultimo capitolo della trilogia gangster

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Jackie Brown

Titolo originale: Jackie Brown

Anno: 1997

Genere: Thriller

Durata: 154 minuti

Casa di produzione: Miramax

Distribuzione: Cecchi Gori Group

Regia: Quentin Tarantino

Sceneggiatura: Quentin Tarantino

Fotografia: Guillermo Navarro

Montaggio: Sally Menke

Attori: Pam Grier, Samuel L.Jackson, Robert Forster, Michael Keaton, Robert De Niro, Bridget Fonda

Trailer italiana di Jackie Brown

Trama di Jackie Brown

L’hostess Jackie Brown esporta illegalmente armi da fuoco sotto l’ordine del trafficante Ordell Robbie, quando però durante il suo “viaggio” di routine incontrerà dei problemi dovrà vedersela con il suo socio disposto anche a ucciderla pur di non farla testimoniare.

Recensione di Jackie Brown

Nel 1997 la Cecchi Cori Group distribuisce nelle sale italiane l’ultimo film della “trilogia gangster” di Quentin Tarantino, in cui la sostanza rispetto a Le Iene (1992) e Pulp Fiction (1994) non cambia, alcuni attori vengono sostituiti, ma sia il genere che la struttura narrativa rimangono pressoché gli stessi. Tale continuità però è bene precisare, in tal caso, non risulta un fattore negativo, anzi, si rivela la ciliegina sulla torta di un superbo ritratto personale dei gangster californiani.

Qui vediamo ancora una volta vicende alternate che tengono però sempre il punto su colei che muove l’azione ed è dunque anche indirettamente l’artefice dell’origine dei movimenti degli altri interpreti: Pam Grier (Jackie Brown). Il resto del cast infatti le ruota attorno in sequenze difficilmente dimenticabili come l’iconico feticismo tarantiniano con il mitologico primo piano sui piedi della bellissima Bridget Fonda poco prima che ci vengano presentati i soci di Jackie: Samuel L.Jackson e il suo aiutante Robert De Niro rispettivamente Ordell Robbie e Louis Gara.

Un fetish che diverrà canonico nella filmografia del regista, evidenziando come la cultura popolare anche quella a un primo sguardo più grezza venga resa dal cineasta come un vero e proprio oggetto di culto, accompagnata come sempre dai dialoghi esaltati ed esaltanti dei protagonisti, a partire proprio dallo scambio di battute tra i due poliziotti (tra cui un ottimo Michael Keaton) che fa rendere ancora conto al pubblico di come il cinema “tarantiniano” sia tutt’altro che d’essai, ma di come la sua origine nasca proprio dal contesto underground in cui il cineasta è cresciuto ovvero in quella storica videoteca di Los Angeles. Una caratteristica che lo trova agli antipodi con altre tipologie di registi come Woody Allen, il quale al contrario mette in scena un cinema borghese totalmente antitetico.

Jackie Brown si dimostra dunque un altro film di discreto successo al botteghino, conclusione di una trilogia gangsteristica destinata a rimanere nell’immaginario collettivo, portando il cineasta a essere tra i più interessanti prospetti del cinema postmoderno anni 90′ attraverso una messa in scena che mantiene sempre un solido connubio tra gli stilemi del cinema moderno europeo/statunitense e la personale modalità di rappresentazione del cineasta. Il tutto perfettamente percepibile nelle ultime sequenze del film, che riescono a rendere visivamente il punto di vista di ogni agente nel momento fatidico della pellicola senza infastidire con la ripetizione incessante delle azioni.

Un atto conclusivo in cui s’intravede di nuovo il rispetto e il coraggio nella rielaborazione delle linee guida visive coniate dal maestro inglese sir Alfred Hitchcock, rispettate anche grazie al superbo montaggio della compianta collaboratrice storica Sally Menke ( venuta a mancare nel 2010) la cui perdita non è rimasta inosservata, dato che il cinema di Tarantino in particolar modo sia la dimostrazione evidente di come l’arte del montaggio sia fondamentale per la perfetta riuscita di un film e di come le due realtà vadano sempre a braccetto.

La trilogia gangster

Inserire le prime tre pellicole del cineasta californiano in una trilogia unica forse potrebbe sembrare un ragionamento un po’ forzato anche sé molti critici ed esperti del settore ne stanno già discutendo, dato che tale triade iniziale presenta (oltre al genere in sé) delle caratteristiche narrative e tecniche molto simili tra loro, che seppur poi siano state immesse da Quentin Tarantino anche in altri suoi film non sono mai risultate così interscambiabili.

Con questo non si vuole glorificare solo l’inizio della carriera del regista, ma si vuole fare un discorso più ampio su come un cineasta definito dai più abitudinale, invece si sia saputo reinventare più volte, creando all’interno della propria filmografia una vasta varietà visiva e narrativa come in questo specifico caso.

Basti pensare che quattro anni dopo Jackie Brown, nel lontano 2003 il cineasta si cimenterà in una riproposizione in chiave post moderna del chambra movies ( cinema di spada giapponese) con l’ormai iconica pellicola in due volumi Kill Bill, che ha regalato il ruolo della vita a Uma Thurman.

Volendo dunque fare un ragionamento complessivo e non semplicistico sulla carriera del regista non si possono non notare le differenze di messa in scena, stile, montaggio che siano sorte a distanza di soli quattro anni e come queste siano continuate anche con i vari Grindhouse, Bastardi senza Gloria e via discorrendo.

Tornando però al focus: la trilogia tarantiniana presenta una serie di storie di malavitosi visti sotto una prospettiva diversa, vestendo i panni di gangster atipici totalmente diversi da come la gente era abituati a vederli sul grande schermo, il tutto sia grazie alle influenze di Mario Bava e nel caso particolare de Le Iene di Cani Arrabbiati (di cui si riprende in parte anche il titolo) sia grazie allo stesso cinema precedente che seppur rivisitato non viene mai del tutto stravolto: l’esempio del capolavoro di Stanley Kubrick, Rapina a mano armata è più che calzante

Il regista crea dunque un delizioso collage riciclando canoni non solo del cinema classico o di cassetta ma anche di film della così detta “serie b”, la quale troppo spesso anche oggi viene bistrattata ed emarginata e che invece se si prova a sorvolare su limiti tecnici (causa budget) offre spunti più che interessanti. Un concetto ben appreso sia dallo stesso Tarantino che da altri suoi coetanei come il cineasta messicano (e amico) Robert Rodriguez.

Per concludere con Tarantino si passa dal riprendere soluzioni di suspense hitchcockiana (macguffin della valigetta in Pulp Fiction) a Karate Kiba di Sonny Chiba a Sergio Leone, facendo così coesistere anime totalmente diverse all’interno del medesimo film, inserendoci anche spesso una cultura pop sempre presente nei suoi lavori: partendo dai discorsi su Like a Virgin di Madonna attorno a un tavolo passando al cheeseburger di Jules e arrivando a destinazione con il feticismo perenne.

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