The Assessment – La valutazione (2024). Siete idonei per avere un figlio? 

Recensione, trama e cast del film The Assessment – La valutazione (2024). Sci-fi psicologico tra controllo, trauma e desiderio di genitorialità.

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Himesh Patel and Elizabeth Olsen in THE ASSESSMENT, a Magnolia Pictures release. Photo credit: Magnus Jønck. © 2024 Number 9 Films Assessment Limited, TA Co-Production GmbH, ShivHans Productions, LLC, TA2022 Investors, LLC, Tiki Tāne Pictures, LLC. Photo courtesy of Magnolia Pictures.
Himesh Patel and Elizabeth Olsen in THE ASSESSMENT, a Magnolia Pictures release. Photo credit: Magnus Jønck. © 2024 Number 9 Films Assessment Limited, TA Co-Production GmbH, ShivHans Productions, LLC, TA2022 Investors, LLC, Tiki Tāne Pictures, LLC. Photo courtesy of Magnolia Pictures.

Trailer di “The Assessment – La valutazione”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Dopo una lunga carriera nell’ambito pubblicitario e nella realizzazione di svariati videoclip musicali — tra cui quelli per Tricky, Skrillex, Drake, Pharrell Williams e Travis Scott — la cineasta francese Fleur Fortuné debutta nel 2024 alla regia di un lungometraggio, realizzando The Assessment – La valutazione, pellicola scritta a sei mani da Nell Garfath Cox, alla sua prima sceneggiatura filmica, Dave Thomas, regista e sceneggiatore di This Is Not Happening (2014), e John Donnelly, noto per aver scritto The Pass (2016) e due episodi della serie Utopia del 2014.

Se, per quanto concerne il lato tecnico, ci troviamo di fronte a cineasti e sceneggiatori relativamente alle prime armi, il comparto attoriale è invece di indubbia notorietà: si va da Himesh Patel (Don’t Look Up, 2021; Station Eleven, 2021–22; Tenet, 2020) a Elizabeth Olsen (I segreti di Wind River, 2017; Sorry for Your Loss, 2018–19; WandaVision, 2021; His Three Daughters, 2023), fino ad Alicia Vikander, vincitrice di un Premio Oscar nel 2016 per la sua performance in The Danish Girl e acclamata dalla critica per la sua interpretazione nel lungometraggio sci-fi Ex Machina.

La pellicola ha avuto la sua prima internazionale l’8 settembre 2024, venendo proiettata al Toronto International Film Festival, per poi essere distribuita nei cinema americani a partire dal 21 marzo 2025 da Magnolia Pictures. In Europa, invece, dopo essere stata presentata al Zurich Film Festival, il 28 novembre 2024 al Torino Film Festival e il 9 dicembre dello stesso anno al Paris International Fantastic Film Festival, la pellicola è stata acquistata, a livello distributivo, da Amazon Prime Video, che l’ha resa disponibile direttamente all’interno del suo servizio streaming a partire dall’8 maggio 2025.

Trama di “The Assessment – La valutazione”

In un futuro non troppo lontano, dove le risorse sono scarse e rigidamente controllate dallo Stato centrale, anche il semplice desiderio naturale di avere un figlio è diventato un lusso. Mettere al mondo un bambino non è più una scelta libera, ma un privilegio riservato a pochi: solo lo 0,01% della popolazione può ambire alla genitorialità. Le coppie ritenute degne, almeno sulla carta, devono affrontare un test della durata di sette giorni, una prova enigmatica e inquietante pensata per stabilire se possano davvero essere dei buoni genitori.  Mia (Elizabeth Olsen) e Aaryan (Himesh Patel) sono tra i pochi fortunati ammessi alla fase finale del processo, dopo aver superato una selezione spietata. Ma mentre si preparano all’esame decisivo, la fortuna è l’ultima cosa che sentono.

Determinati a dimostrare di meritare quel sogno, si trovano faccia a faccia con Virginia (Alicia Vikander), l’enigmatica valutatrice: fredda, imprevedibile, impenetrabile. Per sette giorni estenuanti, Virginia li sottopone a una serie di prove surreali e destabilizzanti, che li spingono al limite. Non si tratta solo di resistenza fisica: le sfide scavano nel profondo, costringendo Mia e Aaryan ad affrontare le loro paure più intime, mettendo in discussione la solidità del loro legame e il significato stesso di diventare genitori.

Col passare dei giorni, la loro relazione — un tempo incrollabile — comincia a mostrare crepe. E quando Mia scopre le vere motivazioni che muovono Virginia, si trovano davanti a una verità inquietante: forse l’intero sistema di valutazione è fondato su qualcosa di molto più oscuro di quanto avessero immaginato.

Recensione di “The Assessment – La valutazione”

Questo è proprio il caso di dirlo: The Assessment – La valutazione è, a tutti gli effetti, un film attoriale, dove le interpretazioni di ciascun attore presente in scena — dai protagonisti ai ruoli estremamente secondari, visibili solo per una manciata di minuti — si distinguono per un livello espressivo altissimo. Con le loro prove attoriali, gli interpreti riescono a elevare la psicologia dei personaggi al di là della sceneggiatura, al di là di ciò che è scritto sulla carta e di quanto viene raccontato attraverso le parole.

Nessuno degli attori esagera, nessuno cade in eccessi macchiettistici — neppure Alicia Vikander, chiamata ad affrontare una prova attoriale particolarmente complessa e rischiosa. Il personaggio di Virginia,  la valutatrice, è infatti psicologicamente sfaccettato: una figura che cambia atteggiamento e comportamento da momento a momento, al fine di mettere in crisi la coppia esaminata, passando dall’essere una fredda e cinica esaminatrice al diventare, talvolta, una bambina capricciosa, disobbediente e maleducata, capace di mettere in disordine la casa e di urinare addosso a un ospite. Indubbiamente, la possibilità di cadere nel ridicolo o nel caricaturale, nell’interpretare i comportamenti di una bambina nel corpo di una donna, era dietro l’angolo. Ma grazie all’interpretazione di Alicia Vikander, questa insidia è stata completamente evitata: l’attrice riesce a rendere credibile e coerente questo cambiamento identitario, restituendolo con intensità e misura.

La sua Virginia, carattere drammaturgico di maggior spessore del film, non è mai una parodia infantile, ma una figura disturbante e ambigua, capace di oscillare tra una glaciale autorità e una vulnerabilità disarmante, quasi folle. Il suo comportamento, apparentemente incoerente — come nella scena in cui sta per morire o per lasciarsi morire — è in realtà il riflesso di una personalità spezzata, segnata da un trauma che affiora bruscamente nel corso della narrazione. Senza ombra di dubbio, l’infantilismo che emerge in svariate scene — come quando simula di essere la figlia della coppia — e il suo repentino passaggio a una postura adulta non sono mai gratuiti, ma funzionali a una strategia di destabilizzazione emotiva, che mette a nudo le paure più profonde dei protagonisti.

Però, Virginia non è solo un’esaminatrice risultando una figura liminale, incarnazione del potere arbitrario statale e della sua manipolazione. Costretta a muoversi di casa in casa con un compito ben preciso, vive in una condizione di assenza di empatia imposta da un sistema disumanizzante. Eppure, il personaggio che fa dell’assenza di empatia il suo perno centrale, muovendosi come strumento statale, rivela crepe e contraddizioni che la rendono umana, portandola a provare sentimenti che non appartengono al suo ruolo. Sentimenti che emergono raramente, ma che spezzano la sua maschera di freddezza — sia in alcuni atteggiamenti nel rapporto con Mia, e soprattutto nel comportarsi con Aaryan, con cui sembra sviluppare una pulsione affettiva. Tuttavia, non è mai chiaro dove finisca l’esame e dove comincino le sue pulsioni personali.

Attraverso questo gioco di trasformazione, la presenza scenica di Virginia si costruisce su una tensione costante tra controllo e regressione, tra il ruolo istituzionale che incarna e le pulsioni infantili che la attraversano. In lei convivono la rigidità di un protocollo impersonale e l’imprevedibilità di un desiderio non elaborato, che si manifesta in gesti dissonanti e disturbanti: il bisogno di essere accudita, di ricevere attenzioni, di occupare uno spazio affettivo che non le è mai stato concesso. Questo dualismo la rende una figura profondamente tragica, prigioniera di un ruolo che la protegge e al tempo stesso la condanna. La sua ambiguità non è solo comportamentale, ma anche ontologica: Virginia sembra incarnare una forma di potere senza volto, che si esprime attraverso di lei al fine di mantenere l’ordine, costringendola a compiere e a far compiere prove assurde, giochi di ruolo, intrusioni nella sfera intima — ma che non offre mai una vera spiegazione.

Virginia è come se fosse essa stessa sottoposta a una valutazione invisibile, costretta a recitare un copione che la logora dall’interno. In questo senso, la sua vulnerabilità non è una debolezza, ma una chiave di lettura: ci permette di intuire che, dietro la maschera dell’esaminatrice, si nasconde una creatura ferita, che ha interiorizzato il linguaggio del controllo come unica forma di relazione possibile. Ed è proprio in questo cortocircuito tra potere e trauma, tra autorità e bisogno, che si colloca la forza disturbante del personaggio — reso con inquietante precisione da Vikander.

Meno interessante risulta la coppia che ambisce a diventare genitori. Alla fine dei conti, nonostante le ottime interpretazioni dei due attori, sia Mia che Aaryan incarnano ruoli già visti più e più volte in molteplici film: una coppia che crede di essere felice, ma che, messa di fronte a un esame, a un evento cruciale, comincia a sgretolarsi. I segreti taciuti, i pensieri non detti, emergono lentamente, distruggendo in modo costante la sintonia tra i partner, che — di fronte all’invasione di Virginia nella loro vita personale — si ritrovano disarmati, perdendo progressivamente la loro unione sentimentale e trasformandosi, quasi, in due estranei.

La sceneggiatura, pur tentando di costruire attorno a loro una tensione crescente, non riesce a scavare davvero nei meccanismi interiori che li muovono. I loro traumi, le ferite invisibili, le insicurezze che precedono l’arrivo di Virginia rimangono sullo sfondo: accennate, ma mai esplorate con profondità. Il passato di Mia come biologa, il ruolo di Aaryan come scienziato, le pressioni sociali e professionali che li hanno condotti a desiderare un figlio in un mondo che lo nega — tutto questo viene evocato, ma non integrato in modo organico nella narrazione. La loro crisi, quindi, appare più come una reazione meccanica agli stimoli esterni che come il frutto di un percorso emotivo coerente.

Dunque se Virginia è resa, anche a livello di scrittura, un personaggio sfaccettato e interessante, lo stesso non si può dire di Mia e Aaryan. I loro traumi interiori e la loro psicologia non vengono mai realmente esplorati: la narrazione si limita a osservare il loro desiderio di diventare genitori e una gelosia latente — almeno nella prima parte della pellicola — che affiora in Mia nel vedere l’empatia crescente tra Virginia e Aaryan. Questo squilibrio relazionale, che avrebbe potuto costituire il fulcro di un’indagine più profonda, viene trattato in modo superficiale, lasciando che la tensione si dissolva in dinamiche prevedibili e prive di reale intensità. Eppure, nonostante tutto, i due personaggi conoscono un’evoluzione coerente e comprensibile nel finale.

Detto ciò, le interpretazioni dei due attori — in particolare quella di Elizabeth Olsen — riescono a donare spessore al personaggio, superando la bidimensionalità della sceneggiatura. Nel suo caso, la sceneggiatura sembra voler porre una domanda cara alla cineasta: perché desiderare di diventare madri? Una domanda che, però, la sceneggiatura non riesce a sviluppare pienamente, rimanendo incapace di offrire una risposta convincente. Alla fine dei conti però Olsen, con una recitazione misurata e intensa, suggerisce ciò che il testo non esplicita: il conflitto tra desiderio e paura, tra istinto e razionalità, tra il bisogno di cura e il timore di non essere all’altezza. È grazie alla sua interpretazione che Mia acquista una dimensione più autentica, più fragile, più umana — anche se il film, nel suo complesso, non riesce a sostenerla fino in fondo.

Il giorno in cui decisi di mettere al mondo un figlio, non avevo la minima idea del viaggio che stavo per intraprendere. A dire il vero, non mi ero mai posta troppe domande sull’avere dei bambini — mi sembrava qualcosa di naturale. Che fosse l’istinto umano di sopravvivenza della specie, secoli di educazione femminile, o semplicemente la paura di morire da sola, per me era normale pensare di dare la vita a un altro essere umano. Così smisi di usare contraccettivi e… non rimasi incinta. All’inizio ignorai la cosa con leggerezza, senza preoccuparmi troppo se stesse succedendo o meno. Ma dopo un paio d’anni, mi rivolsi a uno specialista, che con molta gentilezza mi disse che ero, insomma, “quasi” infertile. Aspetta un attimo… cosa?!

Quello fu l’inizio di un lungo e faticoso percorso, sia psicologico che medico, fatto di visite infinite, esami, tentativi, litigi di coppia, iniezioni a orari assurdi (tipo proprio mentre l’aereo sta atterrando), sbalzi ormonali impazziti, aumento di peso, interventi chirurgici… Protocollo 1, 2, 3, 4. Finché, alla fine, uno specialista in fertilità ammise che non sapevano davvero cosa stesse succedendo, e che non erano dei — potevano forse aumentare le mie probabilità del 20%, ma niente di più. Ma che diavolo. Fu allora che mi attraversò per la prima volta una domanda: perché voglio davvero un figlio? Voglio dire, come tutti, ho i miei problemi con i miei genitori, il pianeta sta andando a rotoli, quindi… qual è il senso?

Fu in quel momento che Stephen mi fece leggere la sceneggiatura di Neil & Dave, The Assessment: e se una società obbligasse le coppie a superare un test assurdo prima di permettere loro di avere un figlio? In quel punto della mia vita, sentii una connessione profonda con quella storia. Per me, tutto tornava a quella stessa domanda che mi stavo facendo: perché lo vogliono davvero, un figlio? Era il cuore emotivo del film. È il motivo per cui Mia e Aaryan (Elizabeth e Himesh) sono disposti a sopportare qualsiasi cosa pur di superare il test, ed è il motivo per cui Virginia (Alicia) è pronta a spingersi ben oltre la sanità mentale per farli fallire. Ed è anche il motivo per cui io — o chiunque — resterei seduto fino alla fine, per scoprire se ce la faranno o no.

Dichiarazione della regista

La regia

Fleur Fortuné, al suo esordio nel lungometraggio, non ha puntato solo sui grandi nomi del cinema, ma ha saputo scegliere interpreti perfettamente aderenti ai caratteri drammaturgici richiesti. In primis, ha dimostrato di essere una cineasta capace — e non è poco — nel dirigere gli attori, permettendo loro di entrare con forza e autenticità nei propri personaggi. A livello interpretativo, Fortuné ha ottenuto il massimo da ciascun attore, ma ha anche compiuto un lavoro registico notevole: non attraverso una regia autoriale fatta di movimenti di macchina vistosi, bensì con uno stile pulito, essenziale, privo di artifici fini a sé stessi. Al centro della sua regia ci sono i personaggi e la costruzione di un climax volutamente disturbante, dal sapore di sci-fi psicologico.

La sua regia si distingue per una compostezza visiva che non cerca di imporsi, ma di accompagnare. Fortuné costruisce la tensione attraverso un uso calibrato dello spazio, della luce e del ritmo interno delle scene, lasciando che siano gli attori e le loro dinamiche a guidare il racconto. In questo senso, la sua mano registica si rivela estremamente sensibile: non sovrasta la narrazione con virtuosismi, ma la amplifica attraverso una messa in scena controllata e misurata. Il lavoro con la fotografia — curata da Magnus Jønck — contribuisce in modo decisivo alla creazione di un’atmosfera claustrofobica e perturbante, dove ogni dettaglio visivo è pensato per generare inquietudine.

Il climax si fa inquietante e disturbante soprattutto grazie alla presenza di un personaggio come Virginia, che la cineasta riesce a descrivere con forza anche sul piano visivo. La sua duplice identità è catturata attraverso ambienti geometrici, sterilizzati, privi di calore, che sembrano reagire al suo passaggio con un silenzio opprimente. La regia traduce visivamente la sua instabilità, alternando momenti di controllo glaciale a improvvise incursioni nel grottesco, nel surreale, nel disturbante. È proprio in questa oscillazione che si rivela la forza del personaggio: una figura che incarna il potere e il trauma, la norma e la devianza, la lucidità e la regressione.

La scenografia

La pellicola possiede una scenografia dal sapore minimal e retro-futuristico, che colloca i personaggi in spazi quasi anonimi, capaci di generare e ampliare maggiormente un senso di tensione e disturbo visivo, trasformando questi sette giorni di esame in un vero e proprio incubo per la coppia. La scelta scenografica di Fleur Fortuné si rivela cruciale nel definire l’identità visiva e narrativa del film: gli ambienti sono spogli, geometrici, privi di qualsiasi ornamento superfluo, eppure carichi di significato. Non si tratta di un minimalismo sterile, ma di una sottrazione studiata, che lascia spazio all’inquietudine e alla percezione di un controllo invisibile. Le superfici lisce, i colori neutri, tendenti al nero, e le luci fredde contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, dove ogni elemento sembra osservare i protagonisti, amplificando il senso di vulnerabilità e alienazione. 

La fantascienza che Fortuné mette in scena è lontana dagli stereotipi tecnologici e spettacolari: non ci sono macchine futuristiche, né dispositivi digitali invadenti, ma piuttosto una presenza tecnologica implicita, suggerita da protocolli, rituali e ambienti che sembrano progettati per testare, manipolare, sorvegliare. È una fantascienza psicologica, che si insinua nel quotidiano e lo trasforma in qualcosa di estraneo, disturbante, disumanizzante. Gli spazi in cui si muovono i personaggi non offrono alcun appiglio emotivo: sono luoghi senza tempo, senza storia, senza memoria, dove ogni gesto diventa carico di ambiguità e ogni silenzio si trasforma in minaccia. Questo impianto estetico non solo amplifica il disagio emotivo e la fragilità psicologica dei protagonisti, ma diventa esso stesso parte integrante del racconto, contribuendo a costruire un universo narrativo coerente, disturbante e profondamente umano. Fortuné dimostra così una straordinaria capacità di utilizzare la scenografia non come semplice sfondo, ma come strumento attivo di tensione e introspezione, capace di evocare una fantascienza rarefatta, inquieta, che parla più alla mente che agli occhi.

Costruire il mondo e le interazioni tra Mia, Aaryan e Virginia è stata una sfida affascinante, perché tutto si svolge in un unico luogo: la loro casa. Questo ambiente funge da metafora perfetta del mondo che abitano. L’ho immaginata come una casa primitiva, retrofuturistica, con un controllo minimo. Doveva essere il loro terreno di gioco, mantenendo la storia e le interpretazioni al centro. Spesso gli elementi fantascientifici possono diventare troppo dominanti, freddi e tecnici, finendo per oscurare la narrazione. Nel nostro mondo, anche se è minerale, vulcanico e ventoso, rimane sottile, come una minaccia in agguato. Lo stesso vale per la tecnologia — è udibile ma mai visibile.

Tutto deve essere visivamente coerente con la storia, e ogni ambiente o stanza riflette il mondo interiore dei personaggi. Lo studio di Aaryan è il riflesso della sua mente: uno spazio virtuale infinito dove può creare e controllare qualsiasi cosa, un luogo in cui il virtuale incontra la realtà. Al contrario, lo spazio di Mia — la sua serra — è situato all’esterno. Ha un aspetto artigianale, dotato di tecnologie analogiche vecchio stile che può toccare e riparare con le proprie mani. Alla fine, scopriamo che la casa modesta di Virginia funziona quasi come una cellula all’interno del sistema — disordinata, piena di piccoli oggetti del passato, e somigliante più a un rifugio di sopravvivenza che a una vera casa.

Dichiarazione della regista

In conclusione

The Assessment – La valutazione è un film che trova la sua forza nella regia misurata e nell’intensità delle interpretazioni, in particolare quella disturbante e magnetica di Alicia Vikander. Fleur Fortuné costruisce un universo visivo claustrofobico e rarefatto, dove la fantascienza si fa psicologica e il controllo diventa linguaggio. Nonostante alcune debolezze nella scrittura, il film riesce a generare un senso di inquietudine persistente, trasformando un esame di idoneità genitoriale in un viaggio disturbante dentro l’identità, il trauma e il desiderio.

Note positive

  • Interpretazioni eccellenti, in particolare Alicia Vikander
  • Regia sensibile e calibrata di Fleur Fortuné
  • Scenografia minimalista e retro-futuristica efficace

Note negative

  • La dinamica di coppia risulta un pizzico banale
  • Alcune tematiche non risultano così ben sviluppate.

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
4.0
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.