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Vivere
Titolo originale: Ikiru
Anno: 1952
Paese: Giappone
Genere: drammatico
Distribuzione: Toho
Durata: 143 minuti
Regia: Akira Kurosawa
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Shinobu Hashimoto, Hideo Oguni
Fotografia: Asakazu Nakai
Montaggio: Akira Kurosawa
Musiche: Fumio Hayasaka
Attori: Takashi Shimura, Shinichi Himori, Haruo Tanaka, Minoru Chiaki, Miki Odagiri, Masao Shimuzu, Yatsuko Tanami, Kin Sugai, Minosuke Yamada, Kyôko Seki
Trama di Vivere
Watanabe, impiegato comunale e capoufficio della sezione civile, rimasto vedovo da venticinque anni scopre di avere un tumore allo stomaco, da questo momento il mondo gli crolla addosso entrando in uno stato di crisi in cui nessuno, compreso il figlio che vuole solo l’eredità, sembra in grado di risollevarlo e d’aiutarlo. L’uomo un giorno decide di andare in banca e prelevare tutti i suoi soldi desideroso di godersi tutti i pochi mesi che gli restano da vivere.

Recensione di Vivere
La vita è così breve
Affrettati ad amarla
Prima che il rosso
svanisca dalle tue labbra
prima che la marea della passione
si plachi…
Per quelli di voi
Che non hanno un domani
Canzone tratta da Vivere
Considerato uno dei capolavori del regista giapponese Akira Kurosawa, Vivere (Ikuru) film in bianco e nero del 1952, è una profonda, accurata e matura analisi della condizione umana. Rappresentata quest’ultima in tutte le sue sfaccettature, ma approfondita con limpida pacatezza ed un’eleganza che ricorda sotto molti aspetti il sentire orientale, costituisce, per mezzo della sua trattazione, un’ottima occasione per riflettere, anche e perché no, confrontandosi con una cultura straniera. Nessun aspetto dell’esistenza dell’uomo viene tralasciato, a partire dall’infantile (in un’accezione evidentemente non negativa) necessità di giocare, passando poi per le peripezie del lavoratore di mezza età, approdando di fronte alla difficile accettazione di quel genere di malattie che giunge imprevisto ed alla morte come punto di partenza per trattare il senso della vita.
Il tema chiave di Vivere è appunto questo: l’accettazione della morte, la capacità di sostenerne il cupo sguardo, la forza di partire dal suo improvviso presentarsi per ragionare sulla vita e su ciò che contribuisce a colmarla di significato, per poi viverla certo, ma consapevoli della sua natura fugace.
Il protagonista, il signor Watanabe, interpretato in maniera magistrale da Takashi Shimura, è un anziano impiegato d’ufficio perennemente seduto alla propria scrivania, lo sguardo seminascosto da pile di pratiche da eseguire, e pare vivere un’esistenza al confine con la non-vita. Chiunque abbia letto qualcosa di Kafka e visto questo film avrà probabilmente trovato delle analogie nella trattazione di questo aspetto della società.
Reso automa biologico da una burocrazia opprimente, compromettente, ostacolo creato appositamente dalla società per la società stessa, rappresentata in maniera estremamente efficace, il signor Watanabe verrà posto dinnanzi alla sua stessa esistenza.
In questa recensione desidero mantenermi sul vago ed invito i lettori, nel momento in cui decidessero di approcciare direttamente questo film, a non cercare troppe informazioni al riguardo. La non-vita generata dal monotono ripetersi di una quotidianità sistematica avrà modo, nel corso del film, di confrontarsi con varie altre forme di esistenza, ma soprattutto con l’eterno quesito “Cosa rende una vita degna di essere vissuta”?
Kurosawa offrirà la sua risposta, una soluzione provvisoria e soggettiva (chiaramente) all’enigma, che dovrà essere colta solo al termine del film, dopo che varie altre prospettive saranno state confutate dal procedere della vicenda. Il finale, del quale non voglio certo parlare, soddisferà, non lascerà con le mani in mano, ad ulteriore dimostrazione che non è una visione pessimistica quella che Kurosawa intende proporre.
Sarà l’idea della morte a far emergere l’esigenza di considerare la vita nella sua purezza, con disincanto, di riflettere sulla dimensione degli affetti familiari e delle relazioni interpersonali, rappresentati nella loro ambivalenza, talvolta scelti come esempio di profonda ipocrisia e superficialità. Si tratta di un’opera d’arte drammatica, ma capace al tempo stesso di trattare le emozioni dei personaggi, in primis del protagonista, con un equilibrio che non concede alla vicenda di sfociare nel vittimismo o nel sentimentalismo estremo di questi.

In conclusione
“Vivere” è una pellicola in bianco e nero meravigliosa, e lo rimarrà qualsiasi cosa si pensi al riguardo del film in se stesso. Non potrà piacere a tutti, o meglio, si tratta di un’opera d’arte adatta unicamente a coloro i quali siano disposti a vivere l’esperienza del film come spazio per la riflessione. E’ un film che invita, e a ciò ho già accennato, a cercare il contatto con una cultura per certi versi lontana dal sentire occidentale, ma pur sempre innervata di un’umanità che porta con sé le naturali esigenze esistenziali dell’uomo, a riprova del fatto che queste ultime sono presenti in ogni individuo, ovunque si trovi. Nello spazio e nel tempo.
Note positive
- Ottima interpretazione degli attori
- Regia e fotografia spettacolari (forte quest’ultima del contributo di Asakazu Nakai)
- Numerosi spunti di riflessione
Note negative
- Il film a tratti può apparire lento, pesante ed estenuante nella sua continua richiesta di partecipazione da parte dello spettatore, con il quale cerca d’intessere da subito un dialogo. Mi correggo, può apparire pesante, ma solo a chi non sia disposto ad accogliere la sua profondità (lontana dal sentire di buona parte delle pellicole contemporanee) e le esigenze comunicative del regista.