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Rapito
Titolo originale: Rapito
Anno: 2023
Nazione: Italia, Francia, Germania
Genere: Drammatico, Storico
Casa di produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema
Distribuzione italiana: 01 Distribution
Durata: 125’
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati
Fotografia: Francesco Di Giacomo
Montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti
Musiche: Fabio Massimo Capogrosso
Costumi : Sergio Ballo, Daria Calvelli
Attori: Barbara Ronchi, Fabrizio Gifuni, Filippo Timi, Corrado Invernizzi, Fausto Russo Alesi, Leonardo Maltese, Alessandro Fiorucci, Paolo Pierobon, Marco Golinucci, Mattia Napoli, Samuele Teneggi, Alessandro Scafati, Enea Sala
Il film di Bellocchio è stato presentato il 23 maggio al 76° Festival di Cannes 2023, dove è uno dei tre film italiani in concorso – insieme a La Chimera di Alice Rohrwacher e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Bellocchio si ripresenta sulla Costa Azzurra a un anno dalla presentazione della serie tv Esterno notte. L’opera è liberamente ispirata al libro Il caso Mortara di Daniele Scalise ove si racconta la vicenda di Edgardo Mortara, ultimogenito di una famiglia ebraica, che viene preso a forza dai soldati di Papa Pio IX, su ordine del pontefice, perché potesse essere educato secondo i dettami cattolici. Alla vicenda si era interessato anche il regista americano Steven Spielberg: The Kidnapping of Edgardo Mortara era tratto dall’omonimo libro di David Kretzer e vedeva fra gli interpreti Marc Rylance e Oscar Isaac. Non è detto che il progetto venga ripreso.
Distribuito nelle sale italiane dal 25 maggio 2023.
Trama di Rapito
Nessuno ha voluto giudicare, ci sono misteri che restano e resteranno tali nella storia di Edgardo Mortara.
Marco Bellocchio
1858. La famiglia ebrea Mortara lottò contro il potere di Papa Pio IX che fece prelevare il sestogenito Edgardo per crescerlo secondo una educazione cattolica. Il prelievo forzato avvenne a seguito di una legge papale e alle dichiarazioni di una domestica dei Mortara, la quale dichiarò che il piccolo era stato battezzato – segretamente e a seguito della possibilità di un suo decesso prematuro. La battaglia divenne ben presto un caso politico che arrivò anche oltre confine. Nel mentre, Edgardo crebbe nei dettami cattolici mentre il potere temporale della Chiesa iniziò il suo declino, sfociato poi nella conquista di Roma da parte delle truppe sabaude.

Recensione di Rapito
Marco Bellocchio è un veterano del cinema italiano: classe 1939, appartenente alla silent generation, ha diretto il suo primo lungometraggio – I pugni in tasca – nel 1965. È sempre stato inviso alle giurie dei festival cinematografici e ai critici fino a una sua rinascita, avvenuta verso la fine del millennio scorso e riconducibile all’Orso d’Argento conquistato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 1991 – con il film La condanna. Il suo cinema è sempre stato identificabile: la sua impronta, spesso dissacratoria e critica, lo ha accompagnato negli anni, anche i più attuali. Limitandoci ai suoi lavori più recenti, è impossibile non ricordare Bella addormentata (2012) – chiaro riferimento al caso Englaro, sull’eutanasia e l’accanimento terapeutico – piuttosto che Il traditore (2019) – resoconto biografico sul collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta.
Con Rapito, il suo intento rimane sempre quello narrativo: mettere in scena una storia che ha lasciato inevitabilmente un segno e nel quale lo spettatore si ritrova immerso, arrivando a trarre delle personali conclusioni. Usa come riferimento il testo di Daniele Scalise e ne estrae una sceneggiatura che è accompagnata dalla visione di ciò che era l’Italia poco prima della sua unificazione, conseguente alla fine ineluttabile del potere papale. Il percorso del bambino ebreo verso una sua conversione religiosa; la sofferenza della famiglia a cui questo bambino è stato strappato; Papa Pio IX che vede svanire il suo potere e la sua influenza politica – anche nel resto d’Europa: un percorso ben definito e frutto di una accurata ricerca.

Per fare ciò, Bellocchio usa la sua esperienza e quella dei suoi collaboratori in maniera efficace e lodevole, non c’è niente che stoni in questa ricostruzione: dalla scenografia che ripropone scorci della Roma e della Bologna dell’epoca agli effetti speciali – usati descrittivamente ma anche allegoricamente, come per le animazione delle vignette sul papa. Il montaggio è usato in maniera classica ma funzionale e la fotografia, spesso giocata su tonalità scure e contrasti evidenti, offre allo spettatore delle immagini suggestive. Anche i costumi sono ben rappresentativi dell’epoca, segno di una indiscussa professionalità.
La musica merita un discorso a sé stante: l’autore piacentino ha sempre fatto sfoggio di colonne musicali importanti e di un loro uso fatto anche di eccessi, rendendo le stesse non più tappetini da usare come sottolineature emotive bensì rendendole protagoniste del momento. L’innalzamento della loro forza viene utilizzato perché ottengano il meritato spazio da coprotagoniste. Uno spazio conquistato anche nelle visioni oniriche impresse dall’autore sulla pellicola: dall’incubo di Pio IX al sogno di Edgardo che libera Cristo dalla sua croce – e quindi sé stesso dal peso di una fede che deve imparare ad accettare.

In questo meccanismo, il regista non poteva deficitare sul lato attoriale e infatti ha scritturato – almeno per le parti da adulti – degli interpreti capaci di esprimere al meglio i personaggi da loro rappresentati. Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi – entrambi già noti a Bellocchio – hanno esposto alla perfezione il dolore dei genitori del giovane Edgardo: la prima con una forza mai eccessiva e ben contenuta, anche nelle scene più drammatiche; il secondo con una interiorizzazione dell’inadeguatezza del genitore che colpisce l’osservatore, anche nella sua non ostentazione. Filippo Timi, nei panni del Cardinale Antonelli, cerca di rendere il collaboratore del pontefice una figura con una sua complessità senza riuscirci totalmente. Anche Fabrizio Gifuni non rivela appieno le sue capacità nell’interpretazione del frate domenicano Pier Gaetano Feletti, forse più impegnato a contenere l’inquisitore che ad esprimerne l’animo, arrivando a emulare il Bernardo Gui di F. Murray Abraham in Il nome della rosa (1986).
Pio IX è stato magnificentemente trasposto in pellicola da Paolo Pierobon, attore d’esperienza che ha reso le sfumature contraddittorie del suo personaggio senza cadere in facili manierismi, passando da una sicurezza spavalda di facciata alla temuta consapevolezza della fine del suo potere. Una interpretazione la cui altezza la si può cogliere nella scena in cui il papa incontra la delegazione ebraica: Paolo Calabresi – interprete del responsabile della comunità ebraica Sabatino Scazzocchio e che molti ricordano come ex iena televisiva – ha tenuto degnamente testa al suo avversario-collega Pierobon in quella che è la scena migliore del film.

Infine, Edgardo Mortara viene interpretato da due attori: l’infante Enea Sala e il giovane Leonardo Maltese – già visto in Il signore delle formiche (2022) di Gianni Amelio, dove interpretava l’amante del protagonista. Il primo è agevolato dal non dover avere grosse sfumature emotive da interpretare, anche se ripercorre il passaggio da una educazione ebraica al divenire un soldato di Cristo. Il secondo conferma la sua acerbezza attoriale, palesata soprattutto nei due momenti più drammatici ovvero durante la traslazione della salma del papa e sul letto di morte della madre: in entrambe le situazioni non riesce a contenere l’ambivalenza del personaggio, strabordando in eccessi riconducibili all’inesperienza.
Del resto, non ho mai pensato di fare un film contro la religione e contro il papa, mi affascinava la storia.
Marco Bellocchio
Tutta questa orchestrazione, egregia e dall’ottimo risultato, ha però una grande pecca: manca di quel segno distintivo che Bellocchio imprime alle sue opere. Ogni sua pellicola era pregna di una linea critica, di pensiero, difficile da non cogliere e che rappresentava un punto di vista soggettivo, su cui si poteva anche non essere d’accordo ma che risultava onesto e sincero. In questo caso, l’autore non prende volutamente una posizione: si limita a raccontare la storia imponendosi di non scontentare nessuno, né i cattolici né la comunità ebraica, evitando accuratamente di indagare i fondamenti della fede; inoltre, va anche a perdersi in una rappresentazione buonista dell’ambiente clericale. Una scelta talmente democristiana che risulta forzata per un regista coraggioso come Bellocchio.

In conclusione
Alcuni sacerdoti l’hanno visto, ne sono usciti emozionati e pensierosi. Più colpita e commossa in profondità è rimasta la comunità ebraica, mi ha fatto piacere sentire la loro gratitudine.
Marco Bellocchio
Marco Bellocchio sa fare cinema e lo dimostra ancora una volta. Poco importa se, in questo specifico caso, si è soffermato più sulle immagini e una narrazione scorrevole e storica che sul contesto. È un peccato veniale che gli viene concesso, soprattutto visto il risultato finale, opera di un gruppo di lavoro davvero capace.
Note positive
- Ottima interpretazione del cast
- Costruzione dettagliata storico-narrativa
- Regia attenta e precisa
Note negative
- Mancanza di un occhio critico