
I contenuti dell'articolo:
Una mamma VS G.W. Bush
Titolo originale: Rabiye Kurnaz vs. George W. Bush
Anno: 2022
Genere: Drammatico
Casa di produzione: Cinéma Defacto, Iskremas Filmproduktion, Pandora Filmproduktion
Distribuzione italiana: Wanted Cinema
Durata: 119′
Regia: Andreas Dresen
Sceneggiatura: Laila Stieler
Fotografia: Andreas Höfer
Montaggio: Jörg Hauschild
Musiche: Cenk Erdogan, Johannes Repka
Attori: Meltem Kaptan, Alexander Scheer, Charly Hübner, Nazmi Kirik, Abdullah Emre Öztürk, Sevda Polat, Safak Sengül, Jeanette Spassova, Abak Safaei-Rad, Alexander Hörbe
Una mamma VS G.W. Bush (2022) è stato presentato al 72. Festival Internazionale del Cinema di Berlino – dove ha vinto gli orsi d’argento per la miglior interpretazione femminile e per la migliore sceneggiatura – e riproposto alla 17. Festa del Cinema di Roma.
Trama di Una mamma VS G.W. Bush
La storia è tratta da un fatto realmente accaduto: Rabiye Kurnaz, madre di Murat, turca di nazionalità e che vive in Germania, si trova costretta a lottare per far riottenere al figlio, reo di essere un sospetto terrorista, la libertà da quelli che sono stati i tristemente famosi campi di prigionia americani del periodo post 11 Settembre 2001.
Recensione di Una mamma VS G.W. Bush
Quando si pensa al cinema tedesco la mente ci riporta a registi come Friedrich Wilhelm Murnau a Ernst Lubitsch – quest’ultimo naturalizzato statunitense – oltre che a Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders: tutti hanno lasciato un segno nella storia della cinematografia internazionale. Andreas Dresen, premiato nel 2002 con l’Orso d’argento – Gran premio della giuria per Catastrofi d’amore (2002), fa parte di quella nuova generazione di autori teutonici che sono alla ricerca di un nuovo percorso espressivo: si è ritagliato un personale spazio di comunicazione andando a proporre storie fortemente radicate alla sua terra e, a volte, con richiami biografici – come in Gundermann (2018).
Una mamma VS G.W. Bush parte dal 2002, anno in cui avviene l’arresto del primogenito Murat, e ripercorre la lotta di Rabiye Kurnaz, la madre, per ottenerne la scarcerazione. Dresen mette in evidenza le incongruità di quella vicenda, anche dal punto di vista politico, andando incontro a un mood narrativo che aveva già proposto, in parte, in Heil.
Il montaggio è molto asettico, quasi a voler lasciare unica protagonista la storia, proponendo qualche cosa che richiama una docufiction. Anche l’uso della musica, centellinata a un paio di momenti di pathos e – soprattutto – a caratterizzare Rabiye, pare voler dar spazio al racconto. L’autore, però, esagera nella raffigurazione della protagonista, marcando diverse scene con alcuni momenti forzatamente comici che non vanno ad alleggerire la storia bensì porta lo spettatore verso una dissonanza difficile da comprendere. E anche la scelta della distribuzione italiana di far doppiare le parti dei comprimari americani – da inglese a inglese – non aiuta: ci si rende subito conto di come la lingua proposta contenga un accento maccheronico abbastanza evidente – non ai livelli del film Padre Pio (2022) di Abel Ferrara, che ha costretto il cast italiano a una lingua con cui non aveva dimestichezza.

Meltem Kaptan, interprete di Rabiye – per cui ha vinto l’orso d’argento a Berlino – è decisamente stereotipata: il personaggio che vediamo sullo schermo diventa analogo a quello di Lainie Kazan in Il mio grosso grasso matrimonio greco. Dalla iperattività culinaria alla preoccupazione per un ficus passando per una guida spericolata: tutti momenti che portano a creare un alone di inverosimiglianza che allontana il pubblico dall’empatia che invece si suppone voler ottenere – sono presenti scene in cui la donna ha dei forti momenti emotivi che però sono compromessi dalla sua aura comica.
Le cadenze temporali sono nette, i passaggi del percorso che portano alla liberazione del figlio sono drastici ma non esaustivi: non si indaga mai sul marito – il quale pare avere una reazione dopo tre anni dalla carcerazione di Murat – e sui due figli minori rispetto a come vivono questa situazione. Anche la posizione della moglie del carcerato, che ha un crollo emotivo a seguito degli eventi, non è approfondita.
Bernhard Docke, l’avvocato interpretato da Alexander Scheer, diventa funzionale ad essere il collante per le situazioni proposte. Nonostante ciò, perde di rilevanza: la discussione con gli altri soci sull’opportunità di accettare un caso così complesso viene chiusa in pochi minuti, non si ha idea di cosa pensi realmente del contesto. Inoltre, risulta sottomesso alla sua assistita, a cui pare dedicarsi con dedizione – oltre che gratuitamente. La sua raffigurazione è molto asciutta rispetto a quella dirompente della donna. Vengono proposti un paio di momenti familiari, che rimangono impersonali e non vengono indagati nonostante, in un paio di scene, viene volutamente fatto intendere come Docke abbia un trasporto sentimentalmente nei riguardi di Rabiye.

In conclusione
Non si può non apprezzare la volontà di narrare un periodo particolarmente complesso, ma rimanere così in superficie rende tutto più vicino a un racconto farsesco che a una evidenza, emotiva e politica. E la chiusura della pellicola sembra rappresentare lo spettatore alla fine del film: un distacco, forse voluto, che però non colpisce il cuore. Insomma: Dresen cerca di ricalcare le orme di Soderbergh con il suo Erin Brockovich ma non riesce a raggiungerne né l’efficacia né la forza.
Note positive
- La sceneggiatura
- Riproposizione storica
Note negative
- Mancati approfondimenti
- Comicità a volte fuori luogo
- Doppiaggio delle parti in inglese