Train Dreams (2025). Tra storia americana e storia d’amore

Recensione, trama e cast del film Train Dreams (2025). Clint Bentley racconta la vita di Robert Grainier tra amore, lutto e trasformazioni storiche.

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Train Dreams. (Featured) Joel Edgerton as Robert Grainier in Train Dreams. Cr. BBP Train Dreams. LLC. © 2025.
Train Dreams. (Featured) Joel Edgerton as Robert Grainier in Train Dreams. Cr. BBP Train Dreams. LLC. © 2025.

Trailer di “Train Dreams”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Presentato in anteprima mondiale fuori concorso al Sundance Film Festival il 25 gennaio 2025, e successivamente al Toronto International Film Festival (Canada) e al Deauville American Film Festival (Francia) nel settembre dello stesso anno, Train Dreams ha avuto una distribuzione limitata in alcune sale cinematografiche: dal 5 novembre in Italia, il 6 novembre in Brasile e Germania, e infine dal 7 novembre nei cinema americani e irlandesi. La pellicola, di genere drammatico, ha però trovato la sua vera e propria diffusione direttamente in streaming, approdando il 21 novembre 2025 su Netflix.

Liberamente basato sul romanzo breve di Denis Johnson — finalista al Pulitzer 2012, pubblicato inizialmente nel 2002 sulla rivista letteraria The Paris Review e riproposto in una versione leggermente modificata il 20 agosto 2011 dalla casa editrice Farrar, Straus and GirouxTrain Dreams è diretto da Clint Bentley, al suo secondo lungometraggio dopo L’ultima corsa (2021). La sceneggiatura è stata co-scritta insieme a Greg Kwedar, storico collaboratore con cui Bentley aveva già firmato Sing Sing (2023) e Transpecos (2016).

Greg ed io lavoriamo insieme ormai da circa 15 anni e abbiamo scritto molti copioni insieme. Questo progetto è stato particolare perché non avevamo mai adattato un’opera di narrativa prima d’ora. Cerchiamo sempre di portare un livello di ricerca molto approfondito in ciò che facciamo, e anche questo film non ha fatto eccezione. Tuttavia, è difficile fare ricerca su qualcosa che riguarda un’epoca passata e che, allo stesso tempo, si basa su un’opera di finzione.

Durante la scrittura siamo andati nella zona in cui Denis Johnson aveva vissuto e dove è ambientata la storia, soggiornando in una baita lungo il fiume Moyea, lo stesso luogo in cui avrebbe potuto vivere Grainier. Abbiamo incontrato boscaioli della zona e persone i cui genitori e nonni erano stati boscaioli. La tribù Kootenai, in quella regione, sta reintroducendo gli storioni nei fiumi. È stato un processo di scrittura davvero unico e gratificante.

Volevo assicurarmi di rimanere completamente fedele allo spirito del libro di Denis, ma allo stesso tempo permettere all’adattamento di trovare la propria strada e diventare il film che doveva essere. È stata una continua esplorazione per cercare di capire quale fosse il giusto equilibrio. Ho letto il libro cinque o sei volte, cercando di interiorizzarlo, e poi l’ho messo da parte per lasciare che la sceneggiatura evolvesse nella storia che desideravo raccontare.

Dichiarazione del regista

Il cast annovera nomi di primo piano del panorama internazionale: protagonista è Joel Edgerton (Dark Matter, 2024; Il maestro giardiniere, 2022; Boy Erased – Vite cancellate, 2018), affiancato da Felicity Jones, due volte candidata all’Oscar e nota al grande pubblico per aver interpretato Jyn Erso in Rogue One: A Star Wars Story, oltre che per le sue performance in The Brutalist (2024) e La teoria del tutto (2014).

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Trama di “Train Dreams”

All’inizio del XX secolo, negli sconfinati paesaggi del Pacific Northwest — tra le foreste di conifere dell’Idaho e dello stato di Washington — si svolge la vita di Robert Grainier (Joel Edgerton), un uomo cresciuto orfano e costretto fin da giovane a lavorare duramente per sopravvivere. La sua esistenza si intreccia con la grande espansione delle ferrovie americane: insieme a squadre di boscaioli e ferrovieri contribuisce a costruire ponti e linee ferroviarie che aprono la strada al progresso, in un’epoca di trasformazioni radicali per gli Stati Uniti. La vicenda di Grainier diventa così il ritratto di un’intera generazione di uomini anonimi che hanno contribuito alla costruzione dell’America moderna, ma che hanno visto dissolversi il loro modo di vivere sotto il peso del progresso industriale.

Al di là della fatica quotidiana e della miseria, c’è l’amore: Robert incontra Gladys (Felicity Jones), con cui intreccia un legame affettuoso e fonda una famiglia. La loro casa, costruita ai margini della foresta, diventa un rifugio fragile ma prezioso, mentre il lavoro porta Robert spesso lontano dalla moglie e dalla figlia. Insieme a loro l’uomo vive attimi di profonda felicità, emozioni intense che però durano poco. Difatti un evento tragico cambia per sempre la sua vita: un incendio devasta la foresta, divorando l’abitazione dei Grainier e, con essa, la vita di Gladys e della loro bambina. Le fiamme non lasciano alcuna traccia concreta della loro morte, ma cancellano ogni certezza, lasciando solo un vuoto interiore e mille dubbi. Da quel momento, Robert si ritrova solo, immerso nei ricordi e nel silenzio dei boschi, sospeso tra il dolore e la memoria di ciò che ha perduto.

Recensione di “Train Dreams”

Netflix è una piattaforma singolare, capace talvolta di deludere (spesso e volentieri) e, più raramente, di sorprendere positivamente. Spesso mi ritrovo a pensare a come Netflix — e il discorso potrebbe estendersi anche a Disney+ — abbia fatto della mediocrità il proprio epicentro, producendo e distribuendo pellicole generaliste, intrise di un certo perbenismo culturale americano tipico del XXI secolo. Un perbenismo che intacca profondamente le narrazioni, rendendo film e serie “carini” e poco più: prodotti ben confezionati, visivamente curati e fotograficamente impeccabili, ma incapaci di lasciare una vera emozione nel cuore dello spettatore. 

Eppure, di tanto in tanto, Netflix sorprende rilasciando opere autoriali, profondamente cinematografiche e accattivanti, capaci di imprimere un segno nell’animo di chi le guarda. Opere che emozionano e stimolano la riflessione, indipendentemente dal formato — serie, film o cortometraggio. Questo avviene ogni anno con due o tre pellicole eccelse, di qualità registica, fotografica e sceneggiativa, segno di un’attenzione rivolta ai cinefili e agli amatori del cinema d’autore. È stato il caso di Roma di Alfonso Cuarón, Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, Mank di David Fincher, Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, Il potere del cane di Jane Campion e persino del controverso Blonde di Andrew Dominik. Film non pensati per un pubblico generalista, ma per cinefili e frequentatori di festival, pellicole spesso concepiti anche per puntare a riconoscimenti prestigiosi come Oscar e Golden Globe (e forse realizzate e acquistate solo per tale motivo) Sorprendentemente, a novembre 2025 Netflix ha rilasciato, a poca distanza l’una dall’altra, cosa molto rara, tre opere di questo tipo: l’ottimo Frankenstein di Guillermo Del Toro, capace di strizzare l’occhio anche al pubblico generalista; A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, intenso film di tensione geopolitica presentato in concorso a Venezia 2025; e infine Train Dreams di Clint Bentley, piccolo film potente sul piano emozionale. 

Il mio pensiero è semplice: perché Netflix non cerca di rilasciare più pellicole di questa qualità durante l’anno? Pellicole che avvolte ottengono anche un buon bacino di spettatori. Se guardiamo i numeri alla fine, i titoli filmici davvero interessanti si contano sulle dita di una mano: cinque o sei film validi, con due o tre eccelsi, spesso acquistati per puntare agli Oscar. Perché non investire maggiormente sulla qualità, soprattutto su opere che ricalchino il percorso di Frankenstein di Del Toro, film autoriale capace di piacere anche a un pubblico generalista grazie al fascino intrinseco della storia e alla mano di un regista che sa coniugare autoriali e respiro commerciale?

Diverso il discorso per A House of Dynamite e, soprattutto, Train Dreams: due film marcatamente autoriali, dal ritmo drammaturgico lento, che una parte del pubblico potrebbe definire “sonnolento”. Io preferisco definirlo “poetico”, almeno nel caso di Train Dreams: la regia, il montaggio e il sonoro — spesso e volentieri  privo di musica tradizionale e costruito sull’ambiente circostante naturalistico — trasformano il film in una visione poetica immensa, capace di trasportarci con semplicità e potenza emotiva nel cuore della vicenda. Un racconto che altro non è se non la narrazione della vita semplice e “miserabile” di un uomo comune del 1900, Robert Grainier, seguito attraverso salti temporali che ne scandiscono l’esistenza, segnata da felicità, malinconia e profonda tristezza. Lo spettatore segue il cammino solitario di Robert, un orfano che, nel corso di un’esistenza priva di lasciti generazionali, ha costantemente ricercato un senso al tutto: uno scopo, una direzione da abbracciare e, soprattutto, una connessione profonda con ciò che lo circonda. Uno scopo che in parte aveva rintracciato nell’amore, nell’immenso affetto verso la sua famiglia — la moglie Gladys e la figlia — che gli permettevano di trovare sia un significato alla vita sia una felicità autentica.

Accanto a questa ricerca esistenziale, la pellicola si apre a molteplici piani di lettura. Innanzitutto, la storia dell’evoluzione tecnologica americana del Novecento: dalla costruzione delle grandi linee ferroviarie, che permisero di collegare territori remoti del Pacific Northwest, fino alle conquiste spaziali, che vediamo nel finale. Grainier diventa così testimone silenzioso di un secolo di trasformazioni radicali, in cui il progresso tecnico e industriale si intreccia con la vita quotidiana degli uomini comuni, ma a cui lui sembra non appartenere, rimanendo ancorato alla dimensione del passato più che orientarsi verso una dimensione del futuro e del progresso americano. Un altro livello interpretativo è quello pacifista, che emerge dalla natura benevola e mai violenta del protagonista. In un’epoca segnata da conflitti mondiali e tensioni sociali, Grainier incarna un atteggiamento di resistenza silenziosa, un rifiuto della brutalità che lo circonda. La sua figura diventa simbolo di un’umanità che, pur immersa nella durezza del lavoro e della miseria, non rinuncia alla compassione e alla dignità. 

Il film si sviluppa anche come discorso ambientalistico: il rapporto tra uomo e natura è centrale e si manifesta attraverso la storia dei “vagabondi” — lavoratori stagionali che abbattevano alberi secolari per fornire legname alle ferrovie e all’industria bellica. In quegli anni, il diboscamento massiccio trasformò per sempre il paesaggio americano, cancellando foreste millenarie e alterando gli ecosistemi, entro un discorso dove ogni forma del creato, anche un piccolo animale o un semplice albero, hanno un loro scopo e una loro funzione fondamentale nel mondo. Grainier, spettatore passivo e insieme partecipe, assiste e partecipa a questo mutamento profondo del territorio, che diventa metafora della perdita e della fragilità della vita stessa.  Va sottolineato, inoltre, che il racconto di questi vagabondi non si limita a un piano naturalistico, ma contribuisce a costruire una microstoria sociale – storica: mette in luce chi erano quegli uomini, quella forza lavoro anonima che ha reso possibile il progresso americano. La narrazione descrive con attenzione le sfumature caratteriali di queste persone, rappresentando il loro microcosmo fatto di precarietà, assenza di solidarietà e fatica quotidiana, dove l’una era e restava, spesso e volentieri uno sconosciuto per l’altro. In questo modo, la vicenda individuale di Grainier si intreccia con la storia collettiva di una generazione di lavoratori dimenticati, restituendo dignità e memoria a chi ha costruito, con il proprio sacrificio, le fondamenta della modernità.

L’amore come perno tragico del racconto di Grainer

Nonostante ciò, nonostante tutto, la storia ottiene il suo massimo splendore emotivo attraverso la storia d’amore. È l’amore a essere il perno e il motore della pellicola. È l’amore a muovere il percorso di Grainer, che ci viene raccontato interamente all’interno della sua dimensione sentimentale: inizialmente abbiamo un uomo privo di scopo, che non sa cosa fare della propria vita; poi incontra l’amore e tutto ciò che fa ruota intorno a questo, laddove il lavoro acquista senso solo in funzione del sostentamento della moglie e della figlia. Infine, la narrazione si incardina sul lutto: un dolore atroce che non lo abbandonerà mai, profondo e intriso di senso di colpa, destinato a imprigionarlo e a impedirgli di ritrovare un barlume di autentica felicità, fino a renderlo vittima dei suoi stessi fantasmi, visivi e uditivi. Nel corso del film egli rivede il cinese ucciso dinanzi ai suoi occhi e ode gli echi delle risate e delle voci di sua figlia e di sua moglie: tre presenze che lo perseguiteranno per tutto il corso della sua esistenza, senza concedergli mai tregua.

Al di là dell’ampiezza del quadro storico, Grainer è raccontato principalmente in ottica di amore e lutto, il tutto innervato da un sottotesto naturalistico che avrebbe potuto essere più approfondito. Indubbiamente è la storia d’amore e la storia del dolore di quest’uomo a smuovere emotivamente lo spettatore, entro corde intense e profondamente sentimentali, che ci portano a tifare per questo amore puro e tenace fra due anime audaci per quegli anni: a partire dal personaggio di Gladys, una donna che potremmo definire femminista e che nel film ci viene mostrata, spesso e volentieri, con indosso pantaloni lunghi (cosa rara all’epoca).

La storia d’amore è resa soprattutto attraverso un montaggio che condensa i momenti salienti di questa favola sentimentale: vediamo varie scene di felicità della coppia, sostenute da una colonna sonora molto delicata, talvolta al pianoforte, capace di trasmettere un profondo senso di dolcezza. Se però vogliamo rintracciare un difetto nel racconto dell’amore tra Grainer e Gladys, lo possiamo individuare nell’evidente banalità drammaturgica.

Il lungometraggio, talora raccontato con un tono favolistico, si affida costantemente a una voce narrante — quella di Will Patton nella versione originale — che esplicita anche il non detto, rendendo l’opera a tratti didascalica, con una presenza più marcata del narratore onnisciente rispetto ai dialoghi fra i personaggi. È una scelta interessante, ma sottrae un minimo di profondità ai caratteri drammaturgici, privandoli proprio del non detto.

Forse per via dell’impostazione drammaturgica e dell’uso della voce narrante, nonché di alcune frasi pronunciate dai personaggi, abbiamo la sensazione di sapere già cosa stia accadendo, soprattutto in relazione alla tragedia imminente: ciò toglie un poco il senso di sorpresa al film e, al contempo, attenua l’intensità emotiva nel momento in cui si compie il lutto — o ciò che presumiamo tale.

Questa può essere considerata l’unica vera critica al film, che per il resto può contare su ottime interpretazioni: in particolare una gigantesca performance di Felicity Jones, che nelle scene di coppia ruba la scena a Joel Edgerton, il quale, al tempo stesso, dà vita al protagonista in modo coerente, con un’interpretazione naturale e sobria.

Una regia semplice ma efficace

Nota di merito va data alla regia, volutamente sobria e perfettamente adatta alla storia trattata: il racconto di un uomo profondamente semplice. Non vi è mai una ricerca registica invadente, poiché la narrazione rimane costantemente al centro. I movimenti di macchina sono ridotti all’essenziale, quasi inesistenti, grazie a scelte stilistiche che privilegiano l’uso di una macchina da presa fissa, poggiata su cavalletto e mai impiegata a mano.

Interessante è anche la grammatica visiva adottata: negli spazi aperti prevalgono totali e campi medi, funzionali a restituire la vastità del mondo naturalistico e la sua imponenza. Quando invece l’attenzione si concentra sui personaggi, soprattutto negli interni, la regia predilige inquadrature strette sui volti, capaci di raccogliere e amplificare ogni sfumatura emotiva. Questo contrasto tra ampiezza paesaggistica e intimità espressiva diventa uno dei cardini estetici del film.

Particolarmente significativa è la scelta dell’aspect ratio 1.37:1, noto come Academy ratio, utilizzato nel cinema dal 1932 fino agli anni ’50 e successivamente nel mondo televisivo. In un’epoca dominata dal formato 16:9, questa opzione conferisce al lungometraggio un tocco retrò, evocando la classicità del cinema delle origini. Al tempo stesso, il rapporto d’aspetto più stretto permette al regista di concentrare lo sguardo dello spettatore sui volti dei personaggi, riducendo le distrazioni laterali e accentuando la verticalità dell’immagine. Questa scelta non è puramente estetica, ma funzionale alla poetica del film: il 1.37:1 restituisce un senso di intimità e di chiusura, coerente con la vicenda di Robert Grainier, uomo isolato e segnato dalla perdita. L’inquadratura diventa così metafora visiva della sua condizione esistenziale: un mondo ristretto, delimitato, in cui la natura appare immensa e l’individuo fragile.

In conclusione

Train Dreams si rivela un’opera poetica e stratificata, capace di intrecciare la vicenda individuale di Robert Grainier con la storia collettiva di un’America in trasformazione. Clint Bentley costruisce un racconto che, pur affidandosi a una voce narrante didascalica e a una struttura talvolta prevedibile, riesce a emozionare grazie alla delicatezza dei suoi momenti intimi e alla forza simbolica dei suoi silenzi. L’amore e il lutto diventano il cuore pulsante della narrazione, mentre il paesaggio naturale e la memoria dei lavoratori dimenticati restituiscono un quadro sociale e ambientale di grande intensità. Nonostante alcune scelte stilistiche che riducono la sorpresa e la profondità drammaturgica, il film rimane un’esperienza cinematografica autentica, capace di unire riflessione storica e tensione emotiva.

Note positive

  • Regia poetica e visivamente suggestiva
  • Interpretazioni solide, con una Felicity Jones di grande intensità
  • Montaggio delicato nelle scene di coppia

Note negative

  • Alcuni passaggi drammaturgici prevedibili e didascalici

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
4.1
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.